WASHINGTON – Diplomazia epistolare e recapito di ingiunzioni doganali su carta intestata: con il formato della lettera Donald Trump ha trovato la sua dimensione preferita per fare politica estera. Ben venticinque missive sono state infatti recapitate negli ultimi giorni, con destinatari sparsi tra Asia, Africa, Balcani e da ultimo anche Unione europea e Messico.

Il format è sempre lo stesso: apertura solenne (“It is a Great Honor for me to send you this letter...”), predica sul “fair TRADE” scritto in maiuscolo, elenco delle colpe del partner e stangata tariffaria a partire dal primo agosto.

La lettera all’Ue è stata indirizzata direttamente a Ursula von der Leyen. Tono cordiale, contenuto meno: dazi al 30% su tutti i prodotti europei, perché “le nostre relazioni commerciali sono tutt’altro che reciproche” e “i vostri deficit sono una minaccia alla nostra sicurezza nazionale”.

Il presidente statunitense ha inoltre avvisato che, nel caso di un’eventuale risposta ritorsiva, è pronto ad aumentarli della stessa percentuale. Ma ha lasciato aperto anche uno spiraglio di trattativa, ipotizzando di “rivedere la lettera” se “desiderate aprire i vostri mercati commerciali, finora chiusi, agli Stati Uniti ed eliminare le vostre politiche tariffarie e non tariffarie e le barriere commerciali”.

Stesso trattamento anche per il Messico, diventato il principale partner commerciale degli Usa: tariffe al 30% perché colpevole, secondo Trump, di “non aiutare abbastanza” sul fronte del fentanyl e del deficit commerciale, e perché “non ha ancora fermato i cartelli che stanno cercando di trasformare tutto il Nord America in un parco giochi del narco-traffico”.

Il Messico ha intanto già risposto alla minaccia di dazi così alti, definendoli un “trattamento ingiusto”.

Tra i Paesi già raggiunti figurano Corea del Sud e Giappone (25%), Malesia, Myanmar e Laos (fino al 40%), Indonesia (32%), Brasile (record negativo al 50%) e perfino la Moldavia (25%). Ma anche Bangladesh e Serbia (35%), Cambogia e Thailandia (35%), e ancora Bosnia, Sudafrica, Algeria, Libia, Iraq, Sri Lanka, Tunisia, Brunei o Filippine (fino al 30%). Il Canada ha incassato un 35% e Trump ha dichiarato che “la lettera è stata accolta bene”, ma da Ottawa non sono arrivate conferme entusiaste.

Il tono, più che diplomatico, è imperiale. Le lettere non chiedono: notificano. E se qualcuno ha dubbi, il tycoon raggela: “Queste tariffe potrebbero anche salire”.

Immediata la reazione della presidente della Commissione europea, che si è detta “pronta a continuare a lavorare per un accordo entro il primo agosto”, ma avvisando che allo stesso tempo l’Ue adotterà “tutte le misure necessarie” per salvaguardare i propri interessi, “inclusa l’adozione di contromisure proporzionate, se necessario”.

Von der Leyen ha anche ammonito che i dazi al 30% “interromperebbero le essenziali catene di approvvigionamento transatlantiche, a scapito di imprese, consumatori e pazienti su entrambe le sponde dell’Atlantico”.

“Pieno sostegno” agli sforzi della Commissione europea nelle trattative da Palazzo Chigi, che auspica “un accordo equo, che possa rafforzare l’Occidente nel suo complesso, atteso che non avrebbe alcun senso innescare uno scontro commerciale tra le due sponde dell’Atlantico”.

Per Bruxelles si tratta quindi di una vera doccia fredda, arrivata dopo mesi di negoziati e frequenti telefonate fra Trump e von der Leyen. Solo pochi giorni fa, il tycoon sembrava aver cambiato tono con l’Ue, affermando come “stesse trattando bene gli Usa”. Eppure, la percentuale tariffaria minacciata è ben al di sopra di quella al 10% che ci si aspettava.

Lettere simili anche a Brasile, Giappone e Corea del Sud, stabilendo dal primo agosto dazi generalizzati che vanno dal 20% al 50%, oltre a una tariffa del 50% sul rame.

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha già dichiarato che imporrà dazi del 50% agli Stati Uniti nel caso in cui il presidente Trump dia seguito al suo annuncio a partire dal primo di agosto, perché “il Brasile  è un Paese sovrano” e “lo strumento principale è la legge della reciprocità, approvata dal nostro Parlamento”.

Intanto, Trump sembra aver cominciato a vedere i frutti dei primi mesi di dazi, almeno dal suo punto di vista. La riscossione delle tariffe doganali Usa è nuovamente aumentata a giugno, superando per la prima volta in un anno fiscale i 100 miliardi di dollari e contribuendo a generare un sorprendente surplus di bilancio di 27 miliardi di dollari per quel mese. I dazi doganali sono diventati la quarta maggiore fonte di entrate per il governo federale: nel giro di circa quattro mesi la loro quota è più che raddoppiata, passando dal 2% al 5% circa.

Restano da vedere, oltre alla reazione delle Borse, i temuti rincari sui consumi interni e gli effetti sull’inflazione: incognite che finora hanno spinto la Fed a non tagliare il costo del denaro, come invece avrebbe richiesto il presidente.