Caro diario
Brina

È tardi e c’è un gran silenzio nel palazzo. Sembra che la notte sia più scura del solito e che nella stanza la luce della mia lampada da tavolo sia così forte da risultare fastidiosa, come un riflettore puntato in faccia.

Già, il riflettore di qualcuno che riesce a vedermi dalla finestra e che ride di me.

Tiro le tende, poi le riapro e torno controvoglia alla scrivania, facendo attenzione a non trascinare la sedia mentre mi avvicino, per non svegliare mamma e papà.

Caro diario… leggo sul taccuino, tra le cancellature dei miei tentativi precedenti. Non so più scrivere, penso, facendo su e giù con le spalle.

Le dita della mano scivolano verso il pomello del cassetto, lo afferrano, tirano e quando spunta la copertina del quaderno, quello che non voglio più vedere, lo richiudo troppo forte. Ma non cambia niente, né il silenzio in casa né il buio fuori.

“Caro diario” ripeto tra me, mentre la matita torna a scorrere sulla pagina, “oggi doveva essere un giorno speciale perché finalmente ho trovato il coraggio di far leggere a mia madre quella storia con i cavalieri, gli elfi, le scogliere irlandesi dove il vento fa i riccioli all’erba e l’oceano schiaffeggia gli scogli. Quella che ho riscritto tante volte, di notte, fino a tardi. Mamma adora i racconti di fantasia e non stavo nella pelle, il cuore mi batteva forte mentre immaginavo a che punto fosse nella lettura, parola dopo parola. Quando è arrivata alla fine non ho resistito e le ho detto: ‘Ti piace? L’ho scritto io!’

‘Tu? Non dire sciocchezze, l’hai copiato’ mi ha risposto lei. Non mi ha creduto. A quel punto le ho strappato il quaderno dalle mani e l’ho chiuso nel cassetto della scrivania, poi ho chiamato Tania per sfogarmi. La mia migliore amica, che è sempre positiva, ha detto di prendere la risposta di mamma come un complimento, ma io so che non è vero, perché per lei sono più bravi gli altri e a me manca sempre qualcosa. Stavolta credevo di renderla fiera. Invece sono solo una stupida”.

Il muro
di Memo

La finestra al quindicesimo piano del grattacielo rivelava una piccola luce tremolante, soffocata dall’oscurità intorno. Dentro l’appartamento Nina sedeva sul letto, le gambe rannicchiate al petto, la coperta indossata a mo’ di mantello, lo sguardo fisso sulla parete di fronte. La lampada proiettava ombre sul muro e lei sapeva che, da qualche parte, appena oltre lo strato sottile di intonaco, lui attendeva, nascosto.

Non era mai riuscita a vederlo davvero, ma l’aveva sentito. Avvertiva il suo respiro sottile, mentre si muoveva furtivo tra i muri e le crepe, scivolando da un angolo all’altro della stanza. Ne percepiva la presenza ogni volta che il legno scricchiolava o l’aria vibrava.
Nina stringeva forte l’orsetto Teo. Non riusciva a spegnere la luce, perché sapeva che, nel buio, lui sarebbe uscito dal suo nascondiglio. Era lì, pronto a strisciare fuori come un serpente. Avrebbe attraversato la parete della sua stanza e si sarebbe avvicinato piano, fino a sfiorarle il viso con le dita gelide.

Tutto era cominciato quando sua madre aveva accettato di fare i turni di notte in ospedale. Era iniziato come un bisbiglio impercettibile, poi erano seguiti gli scricchiolii, lievi ma insistenti, finché Nina non aveva quasi sentito il suo respiro sul collo.

La notte sembrava non finire mai. Nel silenzio dell’appartamento Nina sentiva battere il suo cuore all’impazzata. Poi, d’improvviso, un suono sordo. Una scossa gelida le attraversò le braccia e la schiena. Rimase immobile con gli occhi chiusi. Ma, proprio in quell’istante, il rumore delle chiavi che giravano nella toppa la destò dalla paralisi.

Sua madre era a casa. Nina balzò giù dal letto e corse a spegnere la luce prima che la porta si aprisse. Si affrettò a tornare sotto le coperte, nascondendo il viso nel cuscino. Era salva.
Ancora una volta, il mostro del muro non l’aveva presa.

Oltre il vetro
di Mangiapolvere

La luce al neon dava alla stanza quel nonsoché di ospedale che Arturo aveva sempre odiato. Così come aveva sempre odiato quel monolocale, con il letto in cucina che non si chiudeva più. E quel palazzo lugubre, con l’ascensore in perenne manutenzione e i vicini con cui non aveva scambiato più di qualche “Ciao” e “Sì, è ancora rotto” in dieci anni.

Il nastro adesivo gracchiò sulle alette dello scatolone con le cose da portare nella vita successiva. Non i completi gessati o le scarpe lucide, quelli erano ammassati in un angolo, insieme al tesserino Trading Corp. Da ultimo, Arturo staccò dal muro il poster del tramonto sulla savana. Era così logoro che gli si strappò in mano. «No!» grugnì. Lo sguardo corse oltre il vetro e sentì subito i muscoli rilassarsi. 

Eccola, la sua stella del mattino. Quella luce dal palazzo di fronte, unica compagnia durante le notti passate a studiare l’andamento dei titoli di mercato. Buttava l’occhio e la vedeva, un’amica silenziosa che lo salutava con due clic dell’interruttore, in un rudimentale codice morse prima di spegnersi, ogni mattino.

Con i polpastrelli disegnò sul vetro il contorno di quella finestra. Chiuse i pugni e, in pantofole, uscì di casa, corse giù per i quindici piani di scale, attraversò la strada deserta, digitò il codice dell’ingresso, uguale per tutto l’isolato, e su per altri dodici piani.

Aggrappato al corrimano dell’ultima rampa rammentò che forse l’ascensore di quel palazzo funzionava e si diede del cretino, ma poi scorse un chiarore che sembrava voler fuggire da sotto la porta.

Gli aprì un ragazzo dall’aria più incuriosita che spaventata.
Arturo esitò, ma ormai era lì, faccia a faccia con uno sconosciuto che poteva essere lui dieci anni prima. Aprì la mano e gli porse mezza giraffa sgualcita.

“Domani parto”, rantolò.
L’altro sorrise. “Ti aspettavo, credo”. 

Si scostò per farlo entrare. C’era uno scatolone aperto in mezzo alla stanza.

Tua
di Jo Scout

È notte fonda e Mia, inquieta, si rigira nel letto da ore, incapace di prendere sonno, finché una luce che si accende nel palazzo di fronte la fa scattare a sedere.

Va alla finestra e si aiuta con le dita a contare i piani, cerca nella matematica la sicurezza che sia la finestra di Amal. Dieci, dodici… è proprio quella del suo compagno di banco. Le labbra si schiudono in un sorriso, mentre, nel buio, poggia la fronte al vetro, sperando di scorgerne l’ombra dietro le tende.

Amal vive nel palazzone con altri somali che lavorano nei mobilifici della zona.

“Chessce’?” biascica Isa, sua sorella maggiore, dal letto lì accanto.

“S’è accesa la luce della stanza di Amal, volevo vedere se è vivo, non viene a scuola dalla settimana scorsa”.

“Da quando ha offeso la Prof?”

Amal aveva corretto di nuovo la Prof di Mate, lei indispettita l’aveva spedito dal preside che, allargando le braccia, gli aveva detto che capiva ma non poteva cacciarla.

“Già - annuisce Mia -. Queste mattine l’ho aspettato sotto casa, come sempre, ma non s’è visto e non legge i messaggi”.

“Sta bene, ieri l’ho visto che consegnava poke, mi ha detto che ha deciso di studiare da solo perché al Liceo Melotti perde tempo. Gli ho risposto che lì può far crescere quel suo talento pazzesco” poi Isa si gira e torna a dormire.

Vero, pensa Mia tra sé e comincia a disegnare col dito sul vetro appannato, congiunge le finestre buie del palazzone come nel gioco dei puntini, e mentre intreccia percorsi, alcuni lineari, altri tortuosi, sul letto vibra il telefono: è un messaggio di Amal.

“Grazie Tua, appunti e polpette top! Domattina, se non scendo, chiamami: non posso mancare la verifica di Arte. Il Prof Lievitati mi vuole troppo bene”.

Mia digita: “Il dieci non te lo toglie nessuno, St-Amal!”

E un attimo dopo lo vede comparire alla finestra: ride e sventola gli appunti che gli ha infilato sotto la porta. Appeso alla maniglia gli ha lasciato anche un sacchetto con la cena che, sempre più spesso, sua mamma prepara anche per lui.

In a frame
di Lilla

Melbourne. Royal Domain Tower.

Sono le tre di notte e Nikki continua a rigirarsi nel letto. Non riesce a prendere sonno. Allunga la mano alla ricerca di Luke, anche se sa di non trovarlo più accanto a sé.

Le tornano in mente le sue ultime parole, quelle pronunciate sulla porta che le aveva sbattuto in faccia, prima di sparire per sempre dalla sua vita. Siede sulla sponda del letto e cerca le pantofole.

Non le trova e ne è felice perché, camminando a piedi nudi, riesce a godere del contatto della pelle con il pavimento fresco. Recupera il cellulare scivolato dietro il cuscino e, con la luce dello schermo, raggiunge la porta della camera da letto.

La richiude piano per non svegliare Carlotta che dorme nella culla, poi si dirige verso il suo angolo preferito della sala da dove può abbracciare, con un unico sguardo, il mare, il viale degli eucalipti e tutto lo skyline della città.

Poggia la schiena alla parete e si lascia scivolare giù sul pavimento, portando al petto le ginocchia.

Tutta la città dorme ancora, avvolta in una pesante coperta scura. Gli appartamenti di fronte le sembrano tessere tutte uguali di un puzzle gigante, che racchiudono storie di vita che Nikki immagina più felici della sua.

All’improvviso, si accende una luce nell’appartamento di fronte. Una sagoma barcollante attraversa la sala e poi si abbandona sul divano. È Sophia Clark. Ha una bottiglia in mano.

Nikki la osserva e, come ogni notte da un mese a questa parte, la vede sprofondare in una voragine, nera come quella sulla Great Ocean Road che ha inghiottito l’auto con dentro i suoi figli e suo marito.

Nikki porta una mano alla gola e si avvicina ancora di più al vetro. Sophia sonnecchia sul divano davanti alla televisione con i suoi due cani acciambellati sulle gambe.

La tavola è, come sempre, apparecchiata per quattro. Al centro un vaso con un unico fiore. Nikki ingoia una lacrima. Pensa a Sophia e poi alla sua vita. Poggia la testa sul vetro e prova a dare un senso a tutto quel dolore.

Cindy
di Sam

Alle ventitrè Cindy entrò negli uffici della Flight Corporation al trentesimo piano del grattacielo durante un blackout temporaneo. Accese le luci di emergenza e le vetrate della sala di rappresentanza brillarono nella notte.

Introdusse il carrello con scope, detersivi e stracci.

‘Si comincia’ si disse, posando un copione sul ripiano della scrivania e, spolverando il mogano, sussurrò nel silenzio: “Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?” e riordinò le penne e le matite nel bicchiere di cristallo.

Cambiò tonalità: “Il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte”.

Strofinò la cornice d’argento della foto di famiglia e proseguì a voce alta: “Separarsi è un sì dolce dolore, che dirò buonanotte finché non sarà mattino”.

Ingrassò il cuoio della poltrona del Capo. Impilò gli appunti, sbirciò il copione di sfuggita. Chiese: “Come e, dimmi, perché sei entrato qui dentro?”

Una voce dietro di lei proseguì: “Sulle ali leggere dell’amore ho scavalcato questi muri. L’amore non teme ostacoli di pietra”.

Cindy trasalì, ma si dominò e affrontò le sedie brandendo il piumino. “Le gioie violente hanno violenta fine”.

La voce dietro di lei implorò: “D’ora in avanti tu chiamami Amore, ed io sarò per te non più Romeo, perché m’avrai così ribattezzato”.

La ragazza si voltò, dando le spalle alle vetrate spalancate sulla notte.

“Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente”.

Un uomo in tweed le sorrise dal vano della porta.

“Brava! Lavoravo nell’altra stanza e l’ho ascoltata. Sono un appassionato di Shakespeare e la tentazione è stata troppo forte”.

“Mi chiamo Cindy. Domani ho un provino al New Globe Theater”.

“Ing. Prince. Sicuramente avrà la parte. Mi faccia sapere”. E uscì dalla stanza. Cindy lasciò che il cuore riprendesse a battere normalmente.

La pendola battè dodici rintocchi.

Recuperò il copione, afferrò il carrello, spense la luce e abbandonò gli uffici.