Amori estivi
di Memo

L’uomo la osserva da un po’. È seduta sulla sua stessa panchina, assorta nella lettura. Una donna sulla sessantina, forse poco più. Indossa un abito azzurro che le fascia la vita. Ha pelle abbronzata e capelli biondi raccolti sulla nuca. È bella. L’uomo prende coraggio e le rivolge la parola. 
“Mi scusi, signorina”. Lei solleva lo sguardo, sorpresa.
“Non voglio disturbarla”, dice lui.
“È la prima volta che vengo in vacanza a Laigueglia. Lei è del posto?”
“No, abito a Torino, ma vengo qui ogni anno”, risponde con un mezzo sorriso.
“È un bel posto, più di Alassio. Mi piacerebbe trovare un buon ristorante di pesce. Ne conosce uno?”
Lei esita, spostando una ciocca ribelle dal viso, un gesto che lui trova estremamente sensuale.  |“Le consiglio Il Pirata. Il pesce è fresco”.
“Allora la invito a cena”.
Il sorriso di lei è dolce e disarmante. “È molto audace lei”. 
“Touché”, replica lui. ”È incantevole, sarei felice di cenare con lei. Mi chiamo Paolo”.
“Maria, piacere”. Gli porge la mano.
“Le andrebbe di fare una passeggiata sul lungomare e mangiare un gelato?” 
“Volentieri”.
Impacciati, si alzano e si avviano lungo il mare. Camminano fianco a fianco, parlano e ridono. Lui le sfiora la mano, e lei lo lascia fare.
“Maria, ha scelto un gusto di gelato insolito”, commenta lui.
“Me lo diceva anche mio marito. Adoro la liquirizia”, risponde lei, fermandosi per guardarlo negli occhi.
Anche lui si ferma, ma lo sguardo si fa smarrito. “Maria! Che ore sono?”
Il sorriso di lei si fa amaro. “Sono le sette, Paolo”.
Lui aggrotta la fronte, confuso. “Dobbiamo andare! Dove sono Silvia e le bambine?”
Maria sospira. “In spiaggia. Sai che adorano restare fino al tramonto”.
Lui la guarda con espressione incerta, cercando di ricordare.
“Tua figlia è come te. È tardi. A che ora volete farmi cenare?” Lei gli accarezza la mano con dolcezza.
“Le chiamo subito. Andiamo a casa, Paolo”.
Mentre si avviano, lui sembra ritrovare un po’ di serenità. Lei lo osserva di nascosto, consapevole che domani tutto questo potrebbe nuovamente svanire dalla sua mente, come sabbia portata via dalle onde.

Il fenicottero
di Pancake

“Quanto pesa... ”
“Te lavevo detto io, che è troppo grande! Come ti è venuto in mente? E poi, come lo gonfiamo?” chiese Lidia ad Alberto.

Stavano percorrendo il chilometro circa di strada che dalla stazione portava a una spiaggetta, lei con la sacca da mare, lui con uno zainetto e una borsa IKEA contenente un gonfiabile. A forma di fenicottero. Versione gigante. Davvero gigante.

Alberto aveva notato quante volte, nellultimo mese, lei si era fermata a contemplare quellaffare in vetrina, senza mai decidersi a comprarlo; così laveva preso lui. Però non aveva pensato che avrebbe dovuto trasportarlo sotto il sole. Non aveva mai desiderato tanto arrivare alla meta, ma avrebbe fatto di tutto pur di veder Lidia felice. E soprattutto, avrebbe fatto di tutto pur di non darle ragione. “Troverò il modo, tranquilla”.

Una volta giunti in spiaggia, identificò immediatamente un signore con una pompa per materassini, e si diresse da lui con determinazione. Lidia osservò la scena da lontano: mentre il ragazzo si avvicinava e formulava la sua richiesta, il signore inclinò la testa, aggrottò le sopracciglia, le aggrottò ancora di più, sgranò gli occhi al rendersi conto delle dimensioni del gonfiabile e infine accettò con unalzata di spalle. I cinque stadi di elaborazione in trenta secondi, insomma.

In attesa che Alberto compisse la sua impresa, lei stese il suo telo mare, ci si sdraiò e chiuse gli occhi. Li riaprì quando percepì una variazione di luminosità: unimmensità rosa troneggiava sopra di lei, sostenuta da Alberto, che la guardava sorridente. Mentre tutta la spiaggetta guardava lui.

Lidia inclinò un lato della bocca, divertita. “Tu sì che sai come passare inosservato”.

“Andiamo, guastafeste, ora puoi prendere il sole cullata dalle onde”. E si incamminò verso lacqua, trionfante.

Lidia rise e si alzò. “Tanto se finisco alla deriva, mi vedono pure gli aerei di linea!” disse correndogli dietro.

Io odio gli autogrill!
di Millantastorie

Non amo i lunghi viaggi in auto, soprattutto perché è necessario fermarsi in autogrill.

Luoghi dove la sfiga mi perseguita e dove viene fuori il ‘Furio’ che c’è in mio marito, a cominciare dal parcheggio che deve essere a vista” perché in autogrill è risaputo che aprono le macchine”.

Nellultimo viaggio, ad esempio, mentre Furio cerca disperatamente il posto auto ideale, vedo arrivare un pullman pieno: mi scaravento fuori dalla macchina e corro a perdifiato verso lentrata per anticipare le centinaia di donne che il pullman avrebbe vomitato. Mentre mi affretto a percorrere il labirinto di salami e provoloni le vedo però entrare dalla porta sul retro e subito precipitarsi in bagno: beffata!

Durante la fila chilometrica almeno ho tempo per riflettere: Nella fretta non ho preso la borsa, ma almeno non dovrò appenderla al gancio, che non c’è mai. Però non avrò i fazzoletti: dovrò assicurarmi che nel bagno ci sia la carta. È estate, non ho neanche giacche ingombranti, sarà facile e veloce, speriamo non sia troppo sporco e che non ci sia la griglia che puzza…”

Intanto una signora anziana la si fa passare, poi una bambina che non ce la fa più e la fila comincia a sembrare un ballo di gruppo, con tutte noi che ballonzoliamo a gambe strette.

Quando tocca a me, mi fiondo nel primo gabinetto libero senza controllare la carta, che pare non esserci, allora mi abbasso a vedere se ne è rimasto qualche strappo e tutti i miei equilibrismi per rendere la sosta più igienica possibile vanno in fumo: mi cadono dalla testa gli occhiali da sole.

Uscendo mi accorgo di aver pestato una gomma da masticare, di quelle sciolte sotto il sole. Mentre cerco di staccarla dal sandalo un ragazzo con una borsa mi travolge e cado.

Mentre usciamo finalmente dall’area di sosta, marito mi spiega che il ragazzo gli ha venduto un pacco di calzini: 

Ha detto che mi ha controllato lauto”.

Era vicino alla tua macchina?”
Sì era con un altro”.

Lingegnere si illumina: Era uno di quelli che aprono le auto!”

E si ferma all'autogrill successivo a controllare.

No! Io odio gli autogrill!

Cartolina
di Matisse

Esiste un posto speciale lungo la strada che da Torino porta in Liguria. 

A una certa mira, dopo aver superato le montagne e sfidato curve a gomito a ripetizione, il verde delle pinete si apre e lascia spazio ad una perticona a strisce. È la punta di una ciminiera che sta a mollo in mezzo a una grandissima bacinella di blu. 

Quel punto non compare sulle mappe. Sai di esserci arrivato perché generoso ti regala il mare per la prima volta e di lì si comincia a sentire unaltra aria. 

Mio padre ci diceva sempre di aprire i finestrini e dai che ci siamo quasi” anche se il nostro viaggio sarebbe continuato unaltra ora, fino a Bordighera.

Mia madre invece non mollava mezzo centimetro con i suoi non puoi tenerla fino a che arriviamo? Adesso non facciamo nessuna sosta”, oppure con state fermi, Daniele non metterti a leggere che ti viene da vomitare, Claudia tirati su che ti viene da vomitare. Bruno fai le curve piano che la scorsa volta hanno vomitato.”

E sapevamo già che avrebbero discusso fino allarrivo, se non oltre. Ma io dopo quella boccata manco più li sentivo. Labitacolo profumava già di pini marittimi e rosmarini. E sapeva di vacanze con gli zii e i miei cugini di San Mauro. Di sale e sabbia dappertutto. Di scottature e creme solari scadute lanno prima (ma vanno bene lo stesso), delle prime sbirciate un po’ serie alle ragazzine. 

Ma sapeva anche di tutto ciò che avevamo lasciato in città, a casa nostra: i nonni, la scuola, i compagni, lasfalto rovente, i semafori. E il matrimonio dei miei genitori che oramai era allo sbando.

Le ricordo ancora tutte, da quando il vetro del mio finestrino funzionava a manovella fino allultima, su di un macchinone grigio topo, lestate prima che mio padre si trasferisse a Nizza.

Si sente quando il mare si fa vicino. Basta un respiro. Uno solo.

Tea
di Lievitomadre 

I colpi fecero vibrare il vetro della porta.

“Tea! Ti muovi? Ines deve andare in bagno!”

“Che palle, ma!”

Prima che la mattina degenerasse, il chiavistello sussultò e la porta si aprì. 

Tea stava odiando quelle vacanze, sua madre, che non le aveva permesso di andare con le amiche al mare, e quel paese sperduto in montagna.

Uscita dal bagno si diresse in cucina. Il profumo della torta di mele aveva riempito tutte le stanze. Chissà a che ora si era svegliata Madre per prepararla.

La pancia di Tea gorgogliò affamata, ma non era previsto entrare in modalità gratitudine, per cui tirò dritta verso il divano, non prima di aver afferrato una brioche confezionata. Fece scoppiare l'involucro e guardò soddisfatta la madre, ferita dal fatto che avesse scelto altro al posto della sua torta.

“Ragazze, tra un minuto dobbiamo essere fuori se volete prendere il bus! Altrimenti: i piedi ve li ho fatti!”

Tea alzò lo sguardo infastidita. Sempre quella battuta: vi ho fatto questo, vi ho fatto quello. Come se fosse interamente merito suo e non anche di suo padre.

Lui aveva amato quel luogo fino al suo ultimo respiro, proprio mentre caricava la macchina per partire per le vacanze. 

Questanno era toccato a Madre caricare l'auto, per la stessa destinazione. L'aveva fatto piangendo, certa di non essere vista. 

Ma Tea era lì.

Sbuffando infilò le Air force, inadatte al terreno montano, consapevole che avrebbe generato la collera della madre. 

Ignorò i rimproveri e scese in cortile, dove Ines stava giocando.

Invidiava la spensieratezza della sorella che sembrava immune al vuoto lasciato dalla morte del padre.

Sincamminò verso la fermata mentre la madre, issato sulle spalle un enorme zaino, senza più mani libere, la cercò, sperando in un suo aiuto per chiudere la porta. 

Tea la lasciò nel suo balletto ce la faccio ragazze, ce la faccio” e salì sul bus.

Ciao!” Due occhi verdi incrociarono i suoi e lei finalmente sorrise.

Ciao Luca”.

Forse quella vacanza non sarebbe stata così male, alla fine. 

Ferie
di Mangiapolvere

Come ogni anno Giulio si apprestava a spegnere il computer prima di andare in ferie. Inviò lultima mail al proprio team con le istruzioni per le deleghe. Ma non esitate a contattarmi per ogni necessità”, aggiunse con una smorfia. Impostò la risposta automatica e udì se stesso borbottare: thank you for your message tua sorella.”

Scosse la testa prima di premere Ok. Diede un ultimo sguardo alla ricerca di chissà quali messaggi urgenti, quindi avviò “arresta il sistema”. Poi appoggiò entrambi i palmi sul bordo superiore dello schermo e con un movimento deciso, ma non troppo, chiuse il pc. Lavrebbe riaperto di lì a 17 giorni, alle 8:30 precise. 

Si accorse di essere ancora ricurvo sul tavolino, in quella postazione da smart working con la sedia troppo alta, il piano di lavoro grande quanto un francobollo e lo schermo a caratteri lillipuziani, perfetto per compromettere la vista entro i quarant’anni. Si raddrizzò con un sonoro crack delle vertebre cervicali e chiuse gli occhi.

Gli bruciavano un po’, ma ora non importava più. Aveva una valigia da preparare. Si alzò, si voltò e si ritrovò davanti allarmadio. Gettò la camicia in un angolo della stanza, si mise una maglietta degli AC/DC e un paio di pantaloncini.

Raccolse uno zaino da sotto il letto, dove inserì un paio di fumetti e qualche pacchetto di sigarette. Lo trasferì nella cucina-salotto, aggiunse alcune barrette proteiche e una borraccia da un litro. Non avrebbe dovuto passare controlli aeroportuali. Controllò lo smartphone: si era segnato le cose da vedere e i posti dove mangiare. Non mancava nulla.

Si prese un attimo per immaginarsi in posizione supina con in mano una Coca-Cola ghiacciata, in compagnia dei suoi amici. Avrebbe rivisto anche Geralt. Peccato che, essendo australiano, per capirlo servissero i sottotitoli, pensò con unalzata di spalle.

Chiuse tutte le persiane e quando fu pronto si stese sul divano, afferrò il telecomando e premette Netflix. Con laltra mano stava già ordinando su Just Eat.

B&B Edelweiss
di Sam

Pia attese gli ospiti al parcheggio del villaggio. Arrivarono puntuali dalle Marche. Una coppia di quarantenni. Erano stanchi: il viaggio verso la Valle d’Aosta era stato rallentato da parecchi cantieri, ma ora erano arrivati ed erano felici di essere lì.

“C’è una stradina carrabile che vi permette di arrivare a pochi metri dal vostro ingresso” li informò Pia “è comoda per i bagagli”.

La coppia prese possesso del monolocale. Pia dichiarò ai suoi ospiti che sarebbe stata lieta di indicare loro delle mete escursionistiche.

Il viso di lui si illuminò.

“Oh Signora” esclamò mettendo in tasca i documenti “gliene sarei davvero grato!”

“Siete escursionisti?” si informò Pia.

“No! - affermò lui orgoglioso - sono un macellaio e la mia signora lavora accanto a me alla

gastronomia del supermercato”.

Lei allargò le labbra rosse in un sorriso smagliante e annuì.

“Ecco vede - proseguì lui - il mio sogno più grande è fare barbecue in Valle d’Aosta”.

“È un po’ piccolo - si scusò Pia - ma c’è, sulla terrazza”.

“No, vede, sono arrivato attrezzato”.

Ammiccando compiaciuto la portò al portabagagli della sua auto e mostrò un grosso freezer.

“È pieno di carne di ottima qualità, manzo, maiale, salsicce, costine. Ce né per una settimana”.

Pia non si scompose.

“La valle è ricca di aree da picnic fornite di barbecue pronti all’uso, basta arrivare la mattina per tempo e occupare i tavoli di legno”.

“Benissimo” il volto di lui era raggiante “sarei davvero in debito con lei se mi fornisse gli itinerari per quelle aree da picnic, sarebbe davvero la nostra vacanza ideale. Vero Tesoro?”

Lei gli rivolse un sorriso entusiasta, gli occhi luminosi, sotto la permanente perfetta.

”Bene” disse Pia ”vedrò cosa posso fare. A domani”.

Pia cercò nel sito Love VdA, scelse sei aree da picnic in zone panoramiche in varie vallate e la mattina consegnò una mappa dei barbecue con una cartina della valle d’Aosta.

Lui cucinò per tutta la settimana in magnifiche pinete. Le diedero 10 su Booking.

Bella bro! 
di Jo Scout

“Gli scarponi vanno nel baule, Sara!” sbotta mamma con mia sorella grande, che raccoglie i suoi scarponi e li allinea accanto ai miei, sbuffando. 

Siamo nel parcheggio di Passo Rolle. Oggi la passeggiata con gli amici non finiva più: ci siamo guadagnati lo strauben per merenda, grazie anche a mio fratello Leo, detto Tempesta, che ha tre anni e le gambe corte ma ha camminato senza quasi lamentarsi. 

Prima di salire in auto saluto le Pale di San Martino; ho deciso che sono i miei monti preferiti, prima o poi li scalerò.

“Anna, hai tu le chiavi dellauto?” chiede papà.

“No, hai aperto tu” risponde mamma, mentre cerca di legare al seggiolino auto mio fratello che si divincola come unanguilla.

Papà fruga in tutte le tasche: “Sicura?” 

Lei verifica tasche e zaino poi scuote la testa.

Intanto Tempesta è sceso dallauto e, accanto alla portiera del guidatore, chiama papà. 

“Leo, non è il momento” lo fulmina mamma.

“Papààà!”  grida di nuovo.

“Ehhh!”

“Devo farti vedere una cosa.”

 ”Non ora!” lo zittisce lui.

La Multipla dei Lari si accosta. “Non troviamo le chiavi”, li informa mamma, mentre aiuta papà a tirare fuori dal baule scarpe, zaini, giacche, borracce... Svuotano e ricontrollano tutto per lennesima volta, sempre più in fretta. Li vedo agitati.

“Dai, vieniiii!” Leo si è avvicinato e lo tira per i pantaloncini. 

“Un attimooo!” sbotta papà, ma lui insiste: “Papààà, oraaa!”

“Bastaaa! Ubbidisci! Fila in auto!” urla papà furioso e gli molla uno scapaccione.

Mio fratello comincia a piangere a volume mille. Ci stanno guardando tutti. 

Sento che gli altri genitori stanno cercando una soluzione, uno dice che domani arrivano i Sala, potrebbero passare da casa nostra a prendere la chiave di riserva.

Leo singhiozzando si attacca alle mie gambe e mi tira per un braccio, non mi va ma lo seguo: magari riesco a farlo smettere di strillare. Mi porta al posto di guida e mi indica la portiera! 

“No, vabbè! Bella Bro!” gli batto un cinque sulla sua mini-manina e rido: “Pààà, la chiave è sulla portiera!”

Desideri
di J.B. Fleming

Avevo chiesto a mia madre di venire a vedere le stelle con me quella sera. Lavevo raggiunta in montagna la mattina di San Lorenzo, addosso ancora lafa e la stanchezza degli ultimi mesi di lavoro.

“Ma dai, si sta anche rannuvolando”, aveva risposto. Non mi aspettavo nulla di diverso. Le ore successive le dedicai a sistemare la mia vecchia camera, in cui non tornavo da anni. Come un rituale spiritico, quel pomeriggio evocò ricordi e fantasmi.

Su quella coperta avevo pianto il fidanzato delluniversità, quellaltro libro risaliva allestate col polso rotto. Dovetti aspettare le 21 prima che imbrunisse. Mia madre scuoteva la testa e continuava a dire di no, lei non sarebbe venuta.

“Sono poco più avanti, lungo il torrente”, dissi infine uscendo. Non mi ci volle molto a trovare il posto esatto in cui da bambina andavo a guardare le stelle, sola comero quella sera. Metà del tragitto lavevo trascorso a naso in su, ed era un miracolo che non fossi inciampata. Stesi la coperta sullerba e mi sdraiai.

Gli alberi coprivano la luce dei lampioni, ma nella radura si vedeva una generosa porzione di cielo e si sentiva il mormorio dellacqua. Attesi le Perseidi, contai le  meteore in caduta libera e mi costrinsi a lasciar andare i pensieri nella testa insieme a loro.

Il tempo passava, cominciavo a sentire lumidità e il freddo penetrava sotto i vestiti, ma volevo restare lì, in quella tasca di pace, finché potevo. Dei passi leggeri, esitanti, si avvicinarono. Sorrisi. 

“Allora, quante ne hai viste?” disse mia madre, sdraiandosi sulla coperta accanto a me. La voce incolore, a compensare quellinsolito gesto di affetto.

“Tredici”. 

“Lo sai che sono solo pezzi di roccia in frantumi, vero?” aggiunse.

“Lo so… Me lo ripetevi anche da bambina. Ma è bello avere ancora qualcosa da desiderare. E poi una cosa che ho chiesto si è avverata”.

“Cosa?” La abbracciai e rimanemmo in silenzio. Non si può ricucire una vita in una notte, ma il primo punto era stato fissato.

Collanine e fumetti
di Brina

 

Davanti alledicola del porto, mia nipote Giada mi prende la mano: “Entriamo insieme?” chiede.

“Certo” le sorrido. 

Non mi spiace fare la zia a tempo pieno, questanno ad agosto. 

Mio fratello Aldo si è separato da poco e non sapeva gestire le vacanze con la figlia seienne da solo, quindi gli ho proposto di portarla in Toscana, nel campeggio che conserva i nostri ricordi estivi dinfanzia e adolescenza. Lui ha apprezzato lidea, ma è giù di morale e spesso si isola delegandomi il tempo da dedicare a lei. 

Osservo Giada aggirarsi tra gli espositori, la sua sembra una ricerca mirata. Di cosa, non so. 

“Giadina, hai deciso?” sondo, sistemandole la molletta a forma di ape sui riccioli biondi.

“Quasi, zia Chicca. Volevo un fumetto, ma poi ho visto le collanine”.

Beh, a sei anni anchio andavo matta per le collane di perline e ogni martedì, cascasse il mondo, andavo a comprare Topolino con papà. Un rito durato fino ai miei ventanni e anche uno dei più bei ricordi di lui.

“Papy sa leggere i Paperi con la voce buffa” spiega Giada, indicando lespositore “però mi piacerebbero anche delle collane uguali per noi tre, vedi quelle blu? Non so decidere” sospira. 

“Se compriamo sia le collane che il fumetto?” propongo.

Giada spalanca gli occhioni verdi: “Come, e la regola del ‘solo una cosa’?”

“È una buona regola, ma il Manuale delle Zie non ne parla”.

“Davvero?” Il sorriso che mette in mostra la finestra tra i suoi denti mi emoziona. 

Annuisco solenne e pago collanine e Paperi Disney.

“Siete qui anche voi?” Aldo è davanti alledicola e Giada gli va incontro radiosa.

“Papy, questa collana è per te, mettila, è uguale alle nostre” gli dice, porgendogliene una. Fa lo stesso con me, poi indossa la sua.

“Ora siamo un gruppo dove nessuno può essere triste. Mai!”

“Ah, sì?” Aldo la prende in braccio.

“Sì, abbiamo anche i Paperi! Fai Paperoga?”

Aldo mi guarda e mima con le labbra: “Opera tua?”

Io scuoto il capo, gli spettino i capelli e insieme ridiamo con gli occhi un po’ lucidi.

Io li avevo avvisati 
di Frank Stria

Mi svegliai che era ancora buio. Qualcosa stava per succedere. Tesi le orecchie e rimasi in ascolto. Annusai l’aria estiva. 

Mi alzai e cominciai a chiamare davanti alla porta della malga.

Il vecchio Pietro si precipitò fuori, tirandosi su i calzoni. Mi guardò e poi corse dalle vacche.

Quando capì che erano al sicuro venne da me. Lui sapeva bene che io non chiamavo mai senza un valido motivo, così si accucciò, mi prese il muso e mi guardò con i suoi occhi velati dal tempo.

“Cosa c’è Max? Cosa senti?”

Io iniziai a correre sul prato della malga fermandomi a puntare con il naso oltre la valle, verso il versante opposto.
Allora il vecchio si mise ad osservare, nella prima luce rosata dell’aurora, la cittadina distesa lungo il passo.

Poi alzò lo sguardo, dove le macchine avevano lavorato senza sosta dalla primavera, disboscando e spaccando, per preparare la pista da sci per il prossimo inverno. 

Ora un pezzo di montagna era nudo come la testa di un calvo e spiccava nella prima luce dell’alba. Le strade sotto di noi erano ancora vuote e silenziose.

I nuovi villeggianti, che avevano occupato le case costruite rosicchiando pezzi di montagna, ancora nei letti.
Vidi Pietro spalancare gli occhi e portarsi la mano alla bocca quando uno sbuffo di polvere si sollevò dalla costa sopra al prato della pista.

Poi venne giù, come burro. Un pezzo della montagna si sciolse e scivolò sul passo, travolgendo qualsiasi cosa nella sua corsa. Un boato risuonò per tutta la valle.

Come un un urlo sofferente lasciato andare, percorse assieme allo spostamento dell’aria lo spazio che separava i due versanti, e ci investì.

Pietro cadde all’indietro e io corsi a rifugiarmi dietro al muro della malga.
Riemersi poco dopo. Il silenzio era piombato tra le cime e le valli.

Pietro si era rialzato, gli occhi arrossati e le lacrime che scendevano sulla barba ispida.

Si teneva la testa e balbettava tra i singhiozzi: “Li avevo avvisati! Prima o poi avrebbero pagato il conto”.