Lo studioso si era aggregato a una brigata combattente dell’esercito israeliano, per studiare i resti di un’antica fortezza, situata su un’alta cresta, dove si ritiene possa trovarsi il luogo di sepoltura di Simone lo Zelota, apostolo di Gesù.

La sua presenza in quella zona ha preoccupato le autorità libanesi e sollevato inquietanti domande sulle intenzioni di Israele, perché Erlich era un esponente di punta del movimento ultraconservatore dei coloni d’Israele e le sue ricerche erano spinte da motivazioni ideologiche più che scientifiche: documentando la presenza di comunità ebraiche in determinate zone fin dai tempi biblici, sosteneva la legittimità dell’aspirazione alla colonizzazione di tali zone da parte di Israele. Un caso in cui la scienza, per usare le parole pronunciate dal fisico Oppenheimer dopo il lancio della bomba atomica su Hiroshima, conosce il peccato, perché la conoscenza che deriva dalla ricerca viene utilizzata a fini di potere, al servizio di un irresponsabile fanatismo ideologico. Già in passato le scoperte archeologiche sono state utilizzate come base per espropri di proprietà palestinesi in Cisgiordania e ora sorge il fondato sospetto che il governo israeliano, o perlomeno le sue componenti più oltranziste, vogliano applicare la stessa metodologia per giustificare l’appropriazione e colonizzazione di terre nel sud del Libano. Non a caso Michael Freund, ex vicedirettore delle comunicazioni di Netanyahu, ha scritto in quegli stessi giorni sul Jerusalem Post: “L’attuale confine fra Israele e Libano è del tutto artificiale. Il Libano meridionale è in realtà Israele settentrionale, le radici del popolo ebraico nella zona sono profonde”. Il legame storico con la terra è infatti un assioma della teoria che sostiene il diritto di proprietà esclusiva, per lo Stato di Israele, di qualsiasi terra che, secondo l’Antico Testamento, fu assegnata da Dio al popolo ebraico. Ecco perché la presenza in Libano di Zeev Erlich, autore di testi controversi e osannato “pioniere della colonizzazione”, ha preoccupato le autorità libanesi. 

Poniamo dunque il caso in cui le ricerche archeologiche dovessero provare che la tomba dell’apostolo di Gesù si trova davvero fra quelle rovine, dimostrando così che una comunità di ebrei cristiani si era insediata in quella zona. Cosa accadrà? Il governo di Israele si sentirà in diritto di proclamare proprio quel pezzo di Libano? Invierà esercito e coloni a strappare la terra ai suoi abitanti? E quanti altri lembi del Paese dei cedri potrebbero trovarsi nella stessa condizione? Accadrà lo stesso nella striscia di Gaza?

Quasi a fare da contraltare a questa follia è stata pubblicata, pochi giorni dopo quegli eventi, una lettera aperta, indirizzata agli ebrei della diaspora, firmata da centinaia di intellettuali di area cristiana. Spiccano i nomi dell’ex senatore Raniero al Valle, del premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel, della filosofa Roberta De Monticelli, del giurista Domenico Gallo, seguiti dalle firme di vescovi, professori, studiosi, artisti, attivisti di organizzazioni di volontariato.

La lettera prende spunto dalla spirale di avvenimenti drammatici messa in moto dagli ignobili fatti del 7 ottobre 2023 per esprimere infine angoscia su quanto accade oggi a Gaza e su quello che potrebbe ancora accadere in futuro, con l’allargamento del conflitto a tutta l’area, fino all’Iran.

In un passaggio importante, dopo aver ricordato i vincoli storici, culturali e religiosi che legano il cristianesimo agli ebrei, chiamati “fratelli maggiori”, si ricorda come la storiografia scientifica e l’ermeneutica cristiana abbiano reso ormai impossibile una lettura pedissequa della Bibbia, cosicché la teologia moderna distingue i fatti storici dai miti che formano il racconto biblico e interpreta in forma simbolica quegli scritti. I moderni mezzi di indagine a disposizione degli studiosi hanno infatti dimostrato che molti racconti biblici non possono essere “storici” in senso proprio, perché, sono stati scritti secoli dopo i fatti che vi sono narrati e alcuni dei popoli che, secondo il testo, abitavano la “Terra promessa” nemmeno esistevano all’epoca in cui questa venne strappata dalle tribù d’Israele agli antichi abitanti. Gli autori della lettera invitano quindi gli ebrei della diaspora a liberarsi una volta per sempre dalla lettura letterale del testo biblico, accettando quella simbolica, più consona alla modernità. Così facendo il popolo ebraico si libererebbe anche dall’eredità del terribile delitto fondativo raccontato nell’Antico Testamento, cioè lo sterminio di intere popolazioni eseguito su improbabile ordine divino per conquistare la “Terra Promessa”. Liberandosi dall’idea, propria del sionismo, che quelle terre appartengano in modo inalienabile al popolo ebraico, perché ad esso assegnate da Dio stesso, diventa possibile aprirsi al dialogo con tutte le genti che quei territori le abitano da secoli, alla ricerca di una soluzione di pace e convivenza. 

Gli estensori concludono affermando che, per costruire la pace, si deve abbandonare la fuorviante soluzione “due popoli e due stati”, non solo perché ormai impossibile da attuare, ma anche perché, se attuata, porterebbe solo a nuovi conflitti, una volta tracciati i confini. Si afferma perciò che resta un’unica soluzione: quella di un solo Stato, che corrisponda alla realtà odierna di una comunità pluralistica e multiculturale, che deve inevitabilmente imparare a convivere nei suoi confini.

È una proposta che, per l’Australia odierna è, forse, più comprensibile che altrove e gli australiani, più di altri popoli, potrebbero incoraggiarla, forti della loro ormai pluridecennale esperienza nel multiculturalismo che conferisce valore alle varie culture presenti sul suo territorio, spingendole a sentirsi parte di un’unica ma positivamente variegata comunità nazionale.

Certo, nel dolore di questi tempi questa visione appare essere ancor meno di un sogno, poco più di una debole luce all’orizzonte, verso la quale si può anche guardare, ma senza troppo ottimismo. 

Un viaggio che per questa generazione è forse impossibile anche solo da immaginare. Ma fra l’idea di un’archeologia alla ricerca di tracce per giustificare nuove invasioni e colonizzazioni e il sogno della costruzione di una comunità capace di convivenza, non posso che sposare questa visione, sperare che il messaggio arrivi al cuore della diaspora ebraica e la convinca a mettersi in cammino.