A chi volesse davvero sapere cosa significa fare la guerra, consiglio di leggersi “Il sergente nella neve”, di Mario Rigoni Stern, racconto autobiografico della ritirata degli alpini dalla Russia. Fra quelle pagine si ritrovano indicibili sofferenze. Leggendole, si comprende l’assurdità dell’inimicizia fra popoli che non avrebbero avuto motivo di odiarsi, se i governanti non avessero perseguito assurde politiche di conquista e dominio.

In una lettera pubblicata su Repubblica a settembre, la vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, ha sostenuto che, messa da parte ogni esitazione, l’Italia dovrebbe consentire all’Ucraina di usare le armi fornite dal suo governo anche per attaccare in territorio russo. L’europarlamentare ha liquidato la posizione di chi rifiuta tale ipotesi come “cianfrusaglia pacifista”.

Contemporaneamente alcune organizzazioni pacifiste cattoliche hanno rivolto un appello di segno opposto alle istituzioni, affinché non diano il consenso al lancio di missili italiani oltre i confini ucraini, per evitare l’escalation del conflitto e la possibile entrata in guerra contro la Russia, che minaccia la ritorsione atomica. Cianfrusaglie pacifiste, coerenza evangelica o semplice realismo?
Queste opposte visioni attraversano l’intero spettro politico europeo. Nella prima si sostiene che qualunque cedimento del fronte antirusso metterebbe a rischio il futuro delle democrazie nel continente; nella seconda, minoritaria, si rammenta che non esiste soluzione militare al conflitto ed è la politica a dover individuare un onorevole accordo di pace, che assicuri un’Ucraina indipendente e libera ed una Russia non umiliata, che possa tornare a far parte del consesso europeo.
In mezzo ci sono i civili ucraini sofferenti e in pericolo e i coscritti di entrambi i paesi, carne da macello per volontà di potenti che se ne stanno al sicuro nelle loro tiepide case. Di tutte queste vite non sembra importare molto a governi e alti comandi impegnati a discutere di equilibri e strategie militari. Una classe politica che per decenni ha fatto affari con Putin, per poi dichiararlo nemico numero uno, oggi sembra disposta a scommettere sul destino di un intero continente, in una partita a poker dove le minacce nucleari vengono considerate un bluff, una roulette russa con la pistola caricata a salve. Ma chi può davvero garantire che una Russia messa alle strette non finisca per fare davvero ricorso all’arma atomica?

Sergenmagiù ghe riverem a baita? La domanda ripetuta di Giuanin, giovanissimo alpino bresciano, rimbalza ossessiva fra le pagine del libro: ce la faremo a tornare a casa, sergente maggiore? Ma Giuanin non rivide il paese natìo, rimase a dissanguarsi nella neve.
Non è solo la paura dei funghi atomici e delle radiazioni letali che dovrebbe spingerci a cambiare prospettiva, è anche la pietà, la solidarietà verso chi ogni giorno soffre e muore in un conflitto di cui non si vede la fine. Che la vittoria militare sia fuori prospettiva lo confermano gli esperti, i generali, in pensione o ancora in servizio. 
Ma, forse, quella vittoria non sarebbe nemmeno auspicabile, perché aprirebbe le porte a nuove amarezze, a risentimenti, ad altri conflitti. Si dovrebbe invece fermare la guerra al più presto, cercare ad ogni costo una tregua, aprire al dialogo, alla possibile riconciliazione, costruire un accordo che tenga conto delle ragioni di tutti, che spinga alla cooperazione fra nazioni vicine che devono necessariamente smettere di battersi e tornare a convivere e prosperare in uno spazio comune. 
Questo sarebbe il dovere delle forze politiche e delle loro diplomazie: progettare la pace, tessere la rete di nuove relazioni.

Leggendo le pagine, bellissime e drammatiche, di Mario Rigoni Stern, scopriamo le contadine russe che sfamavano i militari italiani in rotta e l’episodio più intenso giunge proprio nel momento più drammatico di quella ritirata, quando al sergente, esausto, capitò di entrare in un’isba, una casa di contadini, per cercarvi momentaneo rifugio e sollievo dalla battaglia che infuriava.

In quella casa, per lo stesso motivo, avevano trovato rifugio anche alcuni soldati dell’Armata rossa. Li trovò lì, davanti a sé, intenti a mangiare una minestra. Mentre i giovani soldati russi guardavano il militare italiano, con i cucchiai sospesi a mezz’aria, le donne porsero un piatto anche a lui ed egli là, in piedi, col fucile a spalla, mangiò. Così, per qualche minuto, il tempo della guerra, in quella casa di contadini, restò sospeso, annullato. Poi lui chiese il dono di un favo di miele da portare ai suoi commilitoni e si accomiatò.

Poteva andare diversamente. I russi avrebbero potuto sparare e noi non avremmo mai letto le memorie del sergente, il suo cadavere sarebbe stato uno dei tanti lasciati indietro nella neve. Invece a distanza di anni Rigoni Stern poteva scrivere: “Così è successo questo fatto e ora, a pensarvi, non lo trovo strano, ma naturale, di quella naturalezza che una volta deve esserci stata fra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo alcun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, le donne e i bambini, un’armonia che non era armistizio, era molto di più: una volta tanto le circostanze avevano portato gli uomini ad essere uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, di come ci siamo comportati. Se questo è accaduto una volta potrà succedere ancora, diventare un costume, un modo di vivere”.

Chissà se qualcuno abbia mai osato dire a quell’alpino, che si era battuto con coraggio ed onore, che era tornato a baita, a differenza di Giuanin e di tanti altri, che quei suoi astrusi ragionamenti erano cianfrusaglie pacifiste.
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