I pellegrinaggi non sono cosa per me, ma una promessa è una promessa e sono felice di averla mantenuta. 

Ricordo infatti con emozione quei giorni: il faticoso saliscendi delle scalinate sui fianchi del Monte degli Ulivi, le visite al Santo Sepolcro, a Betlemme e a Nazaret, le passeggiate lungo le sponde del lago di Tiberiade, detto anche Mare di Galilea, dove nacque il primo nucleo della comunità itinerante messa assieme dal Nazareno.

A Gerusalemme andammo anche a meditare al Muro del Pianto, dopo essere passati attraverso metal detector certificati conformi alle leggi dello Shabbat da rabbini esperti del pensiero di Dio sulle moderne tecnologie, controllati a vista da giovani soldati e soldatesse con il mitra portato a spalla o minacciosamente brandito a due mani. 
Superata quella barriera, moderna e spaventosa, si precipitava in un passato trasognato, un mondo antico e misterioso. Nel settore riservato ai maschi gli ortodossi, dai cappelli neri e dai lunghi boccoli, si immergevano nella lettura della Torah. 
Lungo il muro si allineavano quelli intenti in agitata preghiera. Nelle crepe fra le antiche pietre il vento agitava i bigliettini lasciati dai credenti. Di fronte si allineavano i banchetti dei rivenditori di filatteri.

Per quella mia parente la geografia visitata in quei giorni non era la somma dello Stato di Israele e del possibile futuro Stato palestinese. Era, più semplicemente e intensamente, Terrasanta. Aveva uno sguardo allo stesso tempo poetico e disincantato su quel lembo straziato di mondo che dovrebbe essere luogo di pace, dialogo e amicizia per cristiani, ebrei e islamici e invece li vede nemici.
C’è stato un tempo, dopo gli accordi di Camp David, in cui la pace sembrava davvero possibile. Allora un sorridente Jimmy Carter, unico presidente USA a non aver scatenato nuove guerre e invasioni, aveva spinto un riluttante Rabin a stringere la mano di Arafat e la nascita di uno Stato palestinese sembrò davvero possibile. 

Quello non era esattamente il sogno di chi aveva sperato che palestinesi e israeliani potessero vivere e prosperare assieme in un unico paese giusto, libero, laico e democratico. Ma, prendendo atto della situazione storica, anche per chi sognava una pace così utopistica, era pur sempre meglio la soluzione due popoli – due Stati, piuttosto che un’occupazione senza fine e la discriminazione come norma, augurandosi magari che, dopo la creazione di quei confini, dolorosi ma necessari, sarebbe arrivata in qualche modo anche la riconciliazione.
L’ex presidente USA, ormai quasi centenario, anni dopo i fatti di Camp David, ha scandalizzato i suoi concittadini pubblicando un libro coraggioso, in cui accusava Israele di costruire nei suoi confini un sistema di apartheid nello stile del Sudafrica razzista. Gli altri protagonisti di quei fatti sono morti in circostanze drammatiche. Niente di quel progetto è andato in porto. Lo Stato palestinese esiste solo negli angusti confini del palazzo delle Nazioni Unite, sulla carta geografica non ve ne è più traccia credibile. 
L’inimicizia sembra prevalere su tutto in quel lembo di terra, le menti sono condizionate dal potere, consumate dall’odio e use alla violenza. 
Ma non tutti sono allineati. Non lo sono Suleiman Khatib e Elie Avidor, palestinese il primo, israeliano il secondo, entrambi ex combattenti. Khatib prese parte alla prima intifada, si fece dieci anni di carcere e in cella si appassionò alle storie di Ghandi e Mandela. 
Avidor combatté per Israele nella guerra dello Yom Kippur e sulle alture del Golan. Entrambi hanno finito per capire che il dolore per la morte dei propri cari è ciò che, da decenni, più accomuna arabi ed ebrei.

Da molti anni i due hanno abbracciato la nonviolenza, fanno parte del movimento dei Combattenti per la pace e, di recente, sono stati in Italia per raccontare le proprie storie e chiedere aiuto per il loro lavoro: “non siamo d’accordo su tutto, ma concordiamo sul fatto che dobbiamo continuare a parlarci”, hanno detto.

“Non vogliamo più far parte della macchina di disumanizzazione, ma di una soluzione che restituisca una dimensione umana alla sofferenza. 
La narrazione comune è: noi o loro ma il nostro movimento è riuscito a mantenere la diversa narrazione del noi e loro, insieme. Sappiamo che il cammino per arrivare alla pace e alla libertà attraverso la nonviolenza è lungo, non è una scelta semplice, ma siamo fieri di aver mantenuto unito il nostro movimento anche in un momento come questo, quando la risposta più comune è che ognuno torni alla propria tribù”. Parole che arrivano dritte al cuore.
Combattenti per la pace è un’organizzazione fondata nel 2006 da israeliani e palestinesi con l’obiettivo di porre fine all’occupazione e costruire nel paese una pace basata su diritti, uguaglianza, libertà per tutti. 
È forse un caso unico al mondo di movimento fondato da ex combattenti delle due parti in conflitto. 
Gente qualsiasi, che prima sparava, lanciava pietre o progettava attentati, ma che ha poi abbracciato la nonviolenza e oggi è impegnata a utilizzare l’istruzione e le tecniche della disubbidienza civile per cambiare attivamente la società israeliana. Non parlano di due popoli e due stati ma di un solo popolo che dovrebbe vivere in pace.

Da qualche anno la parente assieme a cui ho affrontato le fatiche del pellegrinaggio ha lasciato questo mondo e non ho potuto commentare con lei tutto questo, ma penso che sarebbe stata addolorata vedendo quel che accade oggi in quei luoghi a lei cari, che non chiamava ne Palestina, né Israele, ma Terrasanta. 
Penso che avrebbe condiviso la battaglia disarmata dei Combattenti per la Pace e mi auguro che lo spirito di quella lotta coraggiosa, a dispetto delle follie del potere, possa mettere radici e diffondersi, dal fiume Giordano fino al mare.
stravagario.aladino@gmail.com