Cercavamo sistemazione trascinandoci dietro bambini e valigie e ne trovammo una provvisoria a Carlton. 
In quegli anni il quartiere si stava gentrificando, ma conservava i segni della comunità italiana che l’aveva abitato, l’impronta di quando i migranti eravamo noi. 

Fu una bella occasione per conoscere la città, prima di trasferirci in un sobborgo lontano dal centro. Sfidavamo l’afa per esplorare la zona o passeggiare verso la City, scoprendo l’estate australe ed il clima capriccioso della città, con le sue punte di calore e i repentini cool changes. 

A dicembre finimmo per trovarci coinvolti nelle iniziative per la riconciliazione, in voga in quel periodo, e marciammo lungo la St Kilda Road assieme alle delegazioni di aborigeni giunte da tutta l’Australia, con i prati del Royal Botanic Garden invasi da un mare di mani colorate piantate dai bambini, come una fioritura di speranza per il Paese. Sono ricordi indimenticabili.

Non ho memoria, invece, del Park Hotel sulla Swanston Street. La sua facciata anonima non mi è rimasta impressa, ma è probabile che ci sia passato accanto in più d’una occasione: il navigatore lo localizza a pochi isolati dal palazzo dove avevamo trovato alloggio. 
Quando, un anno e mezzo fa, in quell’albergo ci è finito, come detenuto di lusso, il tennista Novak Djokovic, sono rimasto allibito. 

Non per la sua vicenda personale, ma per aver scoperto che quel palazzo nel cuore di Carlton è una via di mezzo fra un hotel per turisti e uomini d’affari ed una prigione per richiedenti asilo, un’appendice di quei centri di detenzione, piazzati nel deserto o nelle isole del Pacifico, dove il governo australiano ancora usa segregare gli stranieri. 

Poche centinaia di passi separano il Children’s Museum, dove i bambini apprendono le scienze in allegria, da quelle mura anonime, dietro cui si occultano ingiustizia e moderna barbarie. Sembra impossibile.
Non ho mai avuto passione per il tennis e non mi interessano le storie delle sue stelle miliardarie; non mi ha certo scosso, quindi, la vicenda del tennista serbo che, con arroganza, aveva rifiutato di seguire le semplici regole di sanità pubblica che miliardi di altre persone nel mondo si erano sentite in dovere di osservare per combattere la pandemia. 

In spregio alla scienza e al buon senso comune lo sportivo pretendeva che la sua stella dovesse brillare comunque e mal gliene incolse: fu brevemente detenuto, seppure eccellente, poi costretto ad andarsene con le racchette nel sacco. 

Avrei ignorato la vicenda se non fosse venuta fuori la faccenda del Park Hotel su cui, in quei giorni, i riflettori si sono accesi, con le folle indignate che manifestavano sotto l’albergo, chiedendo la liberazione del loro idolo e solo di quello, qualcuno perché tifoso di tennis, i più perché ne facevano una questione di patria offesa. 

E dire che lui è stato fortunato, privilegiato anche nella malasorte, perché in quell’hotel c’è rimasto solo quattro giorni, costretto in un limbo dove altri stazionano addirittura per anni, in pieno centro città eppure impediti anche solo di uscire a passeggiare per le strade del quartiere. 

Non che la questione non fosse nota: Amnesty International aveva già più volte denunciato l’assurda e crudele politica del governo australiano nei confronti dei richiedenti asilo e le associazioni che si occupano dei diritti dei rifugiati avevano spesso manifestato sotto l’hotel, ma senza attrarre l’attenzione mediatica che è stata riservata alla stella del tennis.

Per farsi un’idea abbastanza realistica della condizione in cui vengono tenuti rifugiati e richiedenti asilo che arrivano in Australia come “boat people”, basterebbe guardare Stateless, la miniserie Tv di ABC, ora disponibile su Netflix. 
La sceneggiatura è basata su una storia vera e la serie, ben realizzata, ha vinto molti premi. Attraverso i suoi personaggi è possibile penetrare nella crudeltà del sistema carcerario costruito dal governo federale australiano per custodire povera gente in fuga da guerre e persecuzioni, in cerca di rifugio Down Under. 

Donne, bambini, uomini che hanno la sola colpa di essere arrivati senza un permesso, per loro impossibile da ottenere, e che si ritrovano confinati per anni in un girone infernale, senza sapere se e quando ne potranno uscire.

Ai rifugiati chiusi nelle stanzette del Park Hotel non è permesso nemmeno scendere nella hall dell’albergo, invece Djokovic, appena un anno dopo, ha avuto la sua rivincita: è tornato, senza essersi sottoposto ad alcuna vaccinazione, ha giocato, ha vinto e ha poi urlato la sua soddisfazione: “è stato un grande sollievo, dopo tutto quello che ho sofferto”. 

Ma la sua è stata sofferenza da poco e, pur avendo subito lo stesso trattamento riservato ai rifugiati, pur avendo vissuto in quello stesso Hotel e aver definito quella sua breve esperienza una sofferenza, il tennista non ha ritenuto necessario – non dico – sposare la loro causa, ma anche solo spendere una parola in loro favore. Avrebbe aiutato, ma non è accaduto. Si è portato via la vittoria senza dire nulla che non riguardasse la sua personalissima vicenda.

Continuerò a non seguire le vicende del tennis e delle sue stelle miliardarie, opache come buchi neri. Preferisco occuparmi di quegli altri esseri umani posteggiati nei tanti Park Hotel d’Australia, incagliati come relitti nelle secche di una giustizia ingiusta. Per la loro libertà è sacrosanto lottare e se mai tornerò a Carlton sarà per andare sotto a quelle finestre, per chiedere giustizia per loro, che forse non possono nemmeno affacciarsi.
stravagario.aladino@gmail.com