La coincidenza fa riflettere: non dubito che quei crimini siano stati commessi; anzi, credo che altri capi di imputazione dovrebbero aggiungersi alla lista compilata a L’Aja.

Mi domando però perché gli stessi crimini non siano stati perseguiti per ogni altra guerra scatenata da chicchessia, perché non siano stati indagati anche i leader della sciagurata impresa militare di vent’anni fa, quando anche l’Australia si accodò senza tentennamenti alla crociata statunitense.

La narrativa era allarmante: Saddam Hussein, sebbene il suo Paese fosse soggetto dal 1991 a pesantissime sanzioni, era riuscito a produrre armi di distruzione di massa e rappresentava una minaccia per il mondo intero. 

Un nuovo Hitler, forse molto più potente. Bisognava fermarlo, scatenando la prima guerra “preventiva” della storia.
Non tutti però rimasero abbagliati dalla sceneggiata del segretario di Stato americano, Donald Rumsfeld, che, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, agitò una fiala di borotalco spacciandola per antrace.

Manifestazioni per la pace ce ne furono in tutto il mondo: le più grandi della storia. Anche le metropoli australiane furono invase da gente qualsiasi, unita dall’ansia di fermare quella follia e, a Sydney, nelle stesse ore in cui cominciavano a cadere le prime bombe su Baghdad, due persone perbene, ma indignate, decisero che di fronte a una cosa così sporca fosse necessario un atto dimostrativo, qualcosa che tutto il mondo potesse vedere.

Scalarono la vela più alta dell’Opera House e vi scrissero, a grandi lettere di vernice vermiglia: “NO WAR”. Due parole, cinque lettere, niente di più. Un gesto deprecabile in tempi normali, ma quelli non erano tempi normali e l’Opera House è certo un edificio che dà lustro all’Australia, ma non è importante quanto la vita di milioni di persone e nemmeno tanto antico e venerabile quanto quelli che presto sarebbero diventati macerie sotto le bombe della coalizione.

Molti si indignarono per quel gesto che macchiava l’orgoglio australiano. Eppure, c’era ben altro di cui indignarsi: la gente in guerra muore davvero e per sempre e intere generazioni ne pagano le conseguenze, mentre quei due avevano solo dipinto cinque lettere. Qualcuno poi le ha cancellate e a Sydney tutto è tornato come prima. Invece a Baghdad nulla è più lo stesso, da vent’anni almeno.

David Burgess e Will Saunders, i due pacifisti che commisero il misfatto, non erano pericolosi: avevano persino avuto l’accortezza di avvisare la polizia dei loro intenti; il loro gesto simbolico non fece male a nessuno, ma la giustizia fu implacabile, furono arrestati, processati e condannati. Per loro, che volevano richiamare il Paese alla ragionevolezza, ci furono il carcere ed un esorbitante risarcimento da pagare.

L’importo necessario a ripulire la scritta non era nemmeno lontanamente paragonabile alla quota folle di bilancio federale che sarebbe costato lo sforzo bellico, ma per due persone qualsiasi si trattava di una somma enorme e alla condanna si aggiunsero la perdita del posto di lavoro ed una campagna d’odio. I due, comunque, erano stati fin dall’inizio consapevoli e pronti a pagare le conseguenze del loro gesto di disobbedienza civile: scontarono la condanna e, grazie a una raccolta fondi lanciata dalle organizzazioni della società civile, risarcirono i danni.

La storia, poi, dette loro ragione: le armi segrete di Saddam non esistevano; i leader della coalizione avevano deliberatamente mentito al mondo intero per giustificare l’invasione. Quella guerra era servita a garantire il controllo delle risorse petrolifere nella regione al prezzo di centinaia di migliaia di morti e feriti, distruzioni, un’intera regione allo sbando, preda di pericolosi estremisti. La conta precisa delle vittime irachene non l’ha mai fatta nessuno, perché erano morti di poco conto per noi occidentali, danni collaterali.

Ma gli invasori – questo lo sappiamo con certezza grazie alle inchieste di coraggiosi giornalisti – praticarono ogni possibile crimine di guerra, dalle esecuzioni sommarie alle torture. Ma, mentre Burgess e Saunders hanno pagato per le loro azioni, nessuno ha mai chiesto conto ai leader di quella stagione dei crimini commessi. Nessuno ha nemmeno accusato John Howard di essere corresponsabile della morte di tutta quella gente, delle distruzioni, delle torture e di aver insomma provocato, in combutta con Bush, Blair e tanti altri nella catena di comando, un disastro umanitario.

Nessuno ha pagato per quei crimini orrendi, nemmeno i torturatori di Abu Ghraib e tantomeno i loro capi. Le corti di giustizia sono rimaste in silenzio, nessun mandato di cattura è stato spiccato. Ma quale credibilità può avere un sistema giudiziario internazionale selettivo e di parte? Se i crimini di guerra non vengono perseguiti tutti e sempre, nasce il fondato sospetto di una giustizia su misura.

Nel 2008, camminando per il centro di Sydney, incrociai John Howard, che passeggiava tranquillo. Sembrava un uomo sereno, che pensava ai fatti suoi, non uno tormentato dal dubbio o dal rimorso per aver causato dolore e sofferenza a innumerevoli essere umani. Così sono i capi delle nazioni. Essi si barricano dietro il senso del dovere e se hanno mandato uomini a uccidere altri esseri umani si convincono di aver solo difeso l’interesse della nazione; se hanno mentito si trincerano dietro la ragion di Stato.

Per caso o per fortuna nessun australiano è tornato in una bara da quella spedizione; i morti giacciono altrove, da tempo dimenticati, e John Howard può dormire sonni tranquilli. Non meravigliamoci allora se, all’annuncio dell’incriminazione, Putin ha solo scrollato le spalle, come se nulla fosse accaduto.