È un piacere ascoltarla, guardarla negli occhi, seguire i suoi gesti di donna vivace, indipendente, determinata, sicura di sé. Shamla è afgana ma da molti anni vive in Germania. Dopo essersi scrollata di dosso un marito, ricco ma imposto da un matrimonio combinato quando aveva appena quindici anni, a costo di molti sacrifici ha scelto l’indipendenza, portandosi via una figlia partorita da ragazzina, che non voleva far crescere sotto il giogo dei fondamentalisti. Oggi è una donna libera; lavora, ha un compagno che si è scelta, fa volontariato, si accalora parlando di politica.
Accanto a lei siede Samira, più riservata e silenziosa. Nei campi profughi in Pakistan ha conosciuto donne impegnate contro il fondamentalismo e, da allora, dedica la sua vita a questa lotta. Col ritorno dei talebani a Kabul è dovuta fuggire in Europa, ma continua anche da qui il suo impegno, malinconica e determinata.
Le guardo e penso che, davvero, sono donne eccezionali. Sono passate attraverso molte tribolazioni ma sono rimaste vive, capaci, coraggiose, determinate, incrollabili. Mi suscitano ammirazione e rispetto. A rischio della loro sicurezza, sostengono scuole clandestine in Afghanistan, dove delle giovani possono studiare a dispetto dei divieti del regime.
Tempo fa Putin ha affermato la necessità di riconoscere che il potere, in Afghanistan, è ormai in mano ai talebani e che con questi bisogna fare i conti. A giugno il ministro della Giustizia russo ha proposto di rimuovere i talebani dalla lista delle organizzazioni terroristiche bandite da Mosca. La Russia vuole ottenere dal governo talebano il transito per un gasdotto che consentirebbe l’esportazione verso l’India e poggia così la prima pietra verso un riconoscimento ufficiale del regime di Kabul.
La spregiudicata politica russa non è isolata; anzi, non è diversa, nella sostanza, da quella che stanno portando avanti tutti gli Stati interessati alla regione: i Paesi confinanti, quelli del Medio Oriente, le potenze regionali e quelle mondiali, compresa l’Unione Europea.
L’Afghanistan fa gola a molti per la sua posizione strategica e pazienza se, per metterci le mani, bisogna sacrificare le sue donne. Sono molti i Paesi che, con vari pretesti, hanno ripreso i contatti col governo di Kabul.
Già a marzo l’India aveva avuto un incontro ufficiale con alti funzionari e la Turchia aveva affermato essere giunto il momento di riconoscere il governo talebano. A maggio Francia e Canada hanno dato mandato ai loro incaricati d’affari di incontrare le controparti afgane mentre gli inviati speciali degli Stati Uniti e della Ue incontravano i rappresentanti degli Emirati Arabi per valutare i punti di vista comuni e invitare ufficialmente i talebani a partecipare alla conferenza delle Nazioni Unite che si sarebbe tenuta a Doha da lì a poco, mentre l’Onu stessa inviava una delegazione a Kabul per ascoltare le esigenze del Paese direttamente dalla voce del governo.
Uno dopo l’altro, gli attori internazionali più importanti sono andati arrendendosi alla necessità di riconoscere il governo di Kabul per poter operare in Afghanistan, ed è finita che, a luglio, i talebani hanno davvero preso parte alla conferenza di Doha.
Ma, in cambio della loro partecipazione, hanno posto condizioni precise che sono state accettate, benché inaccettabili: hanno ottenuto infatti che non fossero inserite all’ordine del giorno questioni come l’istruzione e l’occupazione femminile e che nessuna donna afgana sedesse al tavolo dei negoziati. Per dialogare con i seguaci del Mullah Omar il resto del mondo ha accettato che non si dovessero menzionare i diritti umani e che le donne afgane venissero oscurate, ma hanno assicurato che lo hanno fatto nell’interesse delle donne stesse, sostenendo l’impossibilità di aiutarle, in un non precisato futuro, in assenza di un dialogo, oggi, col governo afgano.
Vi è certamente, in tutto questo, un’insanabile contraddizione se si considera che, da quando sono tornati al potere i talebani, le donne afgane sono andate scomparendo dalla vita pubblica. A loro si è impedito di studiare, lavorare o semplicemente uscire da casa senza accompagnatori maschi consanguinei. Quasi ad irridere i delegati di Doha, poche settimane dopo la conferenza è entrata in vigore una legge, redatta dall’assurdo “ministero per la Prevenzione del Vizio e Promozione della Virtù”, un articolato grottesco che vieta alle donne persino di cantare, recitare, leggere e parlare ad alta voce in pubblico.
Non è un caso se molti movimenti a livello globale stanno promuovendo una campagna affinché l’apartheid di genere possa essere codificato nel diritto internazionale come crimine contro l’umanità, alla stregua dell’apartheid razziale: le donne afgane sono vittime di apartheid, ed è oggi urgente esercitare pressioni sui nostri governi affinché non cedano alla tentazione di riconoscere la legittimità del governo di Kabul, sacrificando quelle donne sugli altari della realpolitik.
Intanto, io parlo con Shamia e Samira e ripenso a tante coraggiose donne afgane conosciute nel corso degli anni. Sono donne che, secondo gli uomini rozzi, ignoranti, meschini e arroganti che governano il Paese, dovrebbero azzittirsi e scomparire.
Maschi disgustosi, con le menti rinchiuse in un’ideologia disumana, che usano i corpi delle donne per i loro piaceri ma le cancellano dalla vita col pretesto della religione. I governi del mondo trattano con loro, invece di aprirsi alle migliaia di Shamia e Samira, per aiutarle nei loro progetti. Se fossero loro alla guida l’Afghanistan non sarebbe un Paese stremato e alla fame; esse saprebbero forse trasformarlo in una nazione moderna, democratica e laica capace di svolgere un ruolo nuovo nel difficile contesto in cui quel Paese si dibatte.
Porterebbero libertà e felicità. Sono le donne come Shamia e Samira la vera speranza dell’Afghanistan ed è con loro che i governi del mondo dovrebbero trattare.