L’atmosfera era densa dei profumi dell’estate e dalle mura del castello, in cima al colle, il paesaggio era uno spettacolo di colline e pianure verdi, fino al mare. Sono andato fin lassù perché si raccontava la storia di un tale nato là, nella frazione di Cevoli, un secolo prima, in una famiglia di contadini, quando i contadini, da quelle parti, erano davvero poveri.
Si racconta infatti che, nella famiglia di quest’uomo, per sei figli ci fosse un solo paio di scarpe. Chi andava in paese le portava, penzolanti dal collo, e le indossava solo quando dal viottolo si vedevano le prime case, per non rovinarle. Il paese era il posto più lontano dove si aveva motivo di andare, almeno fin quando ai maschi non gli toccava di fare il soldato, o scoppiava una guerra, e allora ti mandavano anche all’estero, ma con gli scarponi di cartone del regio esercito. Il nonno di questo tale, infatti, aveva fatto la Grande guerra. A lui ed ai fratelli toccò invece la Seconda. Poi è venuta la mia generazione, più fortunata, che la guerra l’ha vista solo in TV.
A Lari, quella sera, ho ascoltato una storia come tante, raccontata a bassa voce e con un po’ di musica a fare da sottofondo. Una storia dei tempi di guerra, che viene da chiedersi perché qualcuno abbia sentito il bisogno di ricordarla, tanto tempo dopo. La storia di un italiano che, per ordine del duce e del re, aveva dovuto indossare la divisa e andare addirittura in Russia. Uno che dalle steppe era tornato malconcio e lo avevano assegnato alle retrovie, a fare la guardia ai prigionieri di guerra. Era lì che lo aveva colto l’armistizio, l’8 settembre 1943 e lui da quel giorno era “sbandato”, o almeno così c’era scritto sul foglio matricolare. Ma non è che fosse davvero sbandato. Erano stati il re, la sua corte e il governo a scappare, lasciando l’esercito allo sbando. Ma il tale, proprio così c’era scritto nei fogli matricolari: “tale”, per non ripetere ogni volta il nome, insomma, il tale non era fuggito come il re, anzi, aveva rischiato la pelle per difendere la sua postazione. I tedeschi però l’avevano catturato e portato in un campo di prigionieri destinati alla deportazione. Ma lui in Germania non ci voleva andare e fuggì passando dalle fogne. Tutte cose che nel foglio matricolare non furono scritte.
E nemmeno ci scrissero che il tale finì per andare coi partigiani, per combattere una guerra diversa, questa volta da volontario, non per piacere, ma perché l’Italia era occupata dai nazisti e dalla canaglia fascista e bisognava liberarla. Così questo giovane si ritrovò ribelle, a combattere in montagna, che detto così non si capisce bene che vita terribile fosse quella, piena di sofferenza, fame, insidie e morte. Ma almeno se l’era scelta, e dalla montagna scese solo nel settembre del 1944, per cacciare i nazifascisti da Firenze.
Una piccola storia che si è intrecciata con la grande Storia, perché ad ogni decreto del governo, ad ogni scelta scellerata del duce e del re, è corrisposto il destino di tanta gente e del paese intero. Una storia come quella di tanti altri, di uomini e donne che si sono ribellati ed hanno resistito, non perché avessero la passione di combattere ed uccidere ma perché avevano la necessità di riconquistare la libertà.
Infatti, di questo partigiano di Cevoli si dice che, a guerra finita, non cercò medaglie e onori, ma solo di rifarsi una vita. Fece cose normali: innamorarsi, sposarsi, lavorare sodo. Alla sera studiava e faceva politica, per i valori per cui aveva combattuto; ma non amava raccontare della vita in montagna e non guardava i film di guerra in TV perché, diceva, quelle cose le aveva vissute e gli facevano ancora male.
Si racconta anche che fosse deluso da quello che era venuto dopo. Secondo lui i fascisti avevano solo cambiato camicia. C’erano stati il tentato golpe, la strategia della tensione, le stragi di stato, i servizi deviati, il terrorismo rosso e quello nero, la Gladio e la Loggia P2 e allora quel contadino a volte si chiedeva se essersi sparati addosso fosse davvero servito. Ma poi si ricordava che lo si era fatto per la libertà e per costruire un mondo migliore e vinceva l’orgoglio di aver partecipato a quella lotta.
Fin dall’avvento della dittatura c’è stato chi si è opposto e i fascisti non esitarono a mandarli al cimitero o al confino. Ma è l’8 settembre 1943, con il paese allo sbando, che nasce la Resistenza e tanta gente, che avrebbe anche potuto scegliere di starsene a casa o di nascondersi, ha preso la via della montagna. Molti a casa non ci sono più tornati e tutti gli altri hanno portato cicatrici sulla pelle e nel cuore. Uomini e donne qualsiasi che hanno restituito un po’ di dignità a una nazione umiliata, a prezzo di grandi sacrifici.
Ecco perché qualcuno ha sentito il bisogno di raccontare quella storia e per me essere là è stata un’emozione e una lezione. Per questo oggi racconto quell’episodio. È la storia dei nostri padri e delle nostre madri, la storia di un contadino che ha fatto il partigiano.
Una vecchia storia che si deve raccontare, per non dimenticare e per restare con gli occhi aperti. Perché di resistenza c’è bisogno anche oggi.
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