Di solito al pomeriggio arrivavano volontari in cerca di donazioni per una qualche giusta causa, ma quei ragazzi erano venuti invece ad offrire lampadine a basso consumo energetico: venivano regalate in cambio di una firma su un modulo e dell’impegno ad installarle, in sostituzione di quelle tradizionali, in nome della lotta al cambiamento climatico.

Ci parve davvero una bella iniziativa, di quelle che ci facevano apparire l’Australia un paese pragmatico che i problemi li affronta e cerca di risolverli. Solo più tardi capimmo, leggendo la documentazione che avevamo frettolosamente firmato, che era invece solo fumo negli occhi e ci sentimmo vagamente umiliati perché, in realtà, avevamo sottoscritto una sorta di lasciapassare alle industrie, affinché potessero continuare a inquinare.

Lo schema funzionava così: grazie a leggi locali e accordi internazionali, regalando lampadine alla popolazione, o piantando alberi in qualche lontano paese asiatico, le industrie dimostravano di aver contribuito a diminuire la quantità di biossido di carbonio immessa nell’atmosfera, calcolata in metri cubi per ogni lampadina regalata ed ogni albero piantato. In questo modo veniva loro consentito di produrre un equivalente quantitativo di inquinamento. Venivano ritardati così gli investimenti necessari per la riconversione industriale. In sostanza, le industrie compravano il diritto di continuare a inquinare, alimentando il cambiamento climatico. Capimmo così che era solo un gioco delle parti, una sorta di gigantesca truffa all’umanità.

In Europa si chiama Emission Trade System ed è il fulcro della politica continentale contro il surriscaldamento globale, un sistema paradossale che si propone di ridurre le emissioni inquinanti attraverso l’acquisto di quote di inquinamento: il tipo di operazioni che i giovani che combattono per il loro futuro nelle varie organizzazioni ambientaliste definiscono Greenwashing.

Che, nella prospettiva della lotta al climate change, tutto questo sia un’assurdità, lo pensa anche un lettore con il quale scambio spesso commenti su fatti di cronaca o idee su questioni filosofiche e spirituali. Qualche settimana fa lui, che vive nel NSW, mi ha scritto, sconsolato e allibito, raccontandomi di uno scambio epistolare con la deputata federale laburista della sua circoscrizione elettorale. Le aveva scritto per chiederle di far pressione sui suoi colleghi affinché si lavorasse di più sulla questione dell’energia pulita e che venisse dunque accelerata la chiusura delle miniere di carbone, in nome della difesa dell’ambiente e della riconversione energetica.

Si tratta, secondo i rigorosi rapporti dell’intera comunità scientifica specializzata su queste tematiche, di questioni fondamentali per combattere il cambiamento climatico che sta sconvolgendo la vita dell’intero pianeta. D’altro canto, la richiesta era in linea con il programma con cui il governo laburista ha vinto le elezioni, impegnandosi a ridurre le emissioni inquinanti e a promuovere la produzione di energie rinnovabili. Il lettore si attendeva quindi una risposta positiva o, perlomeno, incoraggiante. È perciò rimasto allibito nel ricevere la cordiale risposta, nella quale si affermava che ridurre la produzione del carbone sarebbe stato contro l’interesse economico della nazione e che, dunque, si sarebbe continuato ad estrarne fino ad esaurimento dei giacimenti. La parlamentare ha però tenuto a precisare che il governo sta rispettando ugualmente gli impegni assunti con gli elettori, perché il carbone non viene bruciato in Australia ma venduto alla Cina e ad ogni altra nazione interessata.

La contraddizione non sfuggirebbe a un bambino e non è certo sfuggita al mio amico, che mi ha scritto, lucido e sconfortato: “È come se l’onorevole affermasse che, quando il carbone australiano viene bruciato in un’altra parte del pianeta non inquina o non contribuisce al surriscaldamento. Mi ha stupito parecchio, perché non è irragionevole aspettarsi, da chi arriva a far parte di un governo come quello australiano, che abbia abbastanza intelletto da capire che tutto è collegato, non a caso si parla di surriscaldamento globale”.

Già il precedente esecutivo, a guida liberale, si era rifiutato di allinearsi alle oltre quaranta nazioni industrializzate che si erano dichiarate disposte ad una graduale eliminazione del carbone. All’epoca il ministro federale per l’energia aveva dichiarato che il paese non lavorava all’eliminazione dei combustibili fossili ma allo sviluppo di tecnologie capaci di ridurre le emissioni nocive senza mettere in crisi l’industria, come ad esempio lo stoccaggio in depositi sotterranei delle emissioni climalteranti. È triste constatare come i mediocri politici che governano il mondo intero non siano davvero disposti a raccogliere la sfida che si prospetta all’umanità, nascondendo la loro inettitudine dietro i presunti interessi della nazione e insistendo, da decenni ormai, sulla necessità di non imporre accelerazioni improvvise e destabilizzanti al processo di decarbonizzazione dell’economia.

A doversi mettere sotto accusa, allora, è proprio il concetto di “Interesse nazionale”. Qualche anno fa, nell’interesse comune, la comunità internazionale ha chiesto all’Ecuador di preservare la propria foresta amazzonica che è un patrimonio immenso di biodiversità unico al mondo. L’Ecuador si è detto disposto a farlo, sacrificando quindi i propri interessi economici nazionali, ma ha chiesto di essere sostenuto in questo sforzo dalla comunità internazionale. Ma mentre l’appello era stato accorato, i cordoni della borsa, fino ad oggi, hanno fatto fatica ad aprirsi per aiutare il paese a preservare un patrimonio naturale che serve all’umanità intera. E sotto la guida di un grande, umile, lungimirante presidente come José Pepe Mujica, l’Uruguay ha realizzato una totale riconversione energetica, in linea con le indicazioni degli scienziati, che è costata enormi sacrifici al paese. Poi però il presidente, tornato a scadenza del mandato a fare il contadino, ha dovuto amaramente constatare che quello sforzo, che ha pesato sulle vite dei suoi concittadini, sarà stato vano se i più grandi e popolosi paesi vicini non faranno altrettanto.

Dobbiamo convincerci che, nella lotta contro i cambiamenti climatici l’interesse nazionale e quello mondiale coincidono. Gli australiani dovrebbero scendere in strada per costringere i politici di qualsiasi governo a lasciare il carbone dove si trova, perché che sia bruciato in Australia o in Cina non fa differenza per la nostra sorte comune.
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