Il 2 agosto 2017 la nave Iuventa, dell’ONG tedesca Jugend Rettet, è stata posta sotto sequestro dalla Procura di Trapani ed i membri dell’equipaggio incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il teorema accusatorio sosteneva che sulle rotte del Mediterraneo centrale non avvenissero salvataggi ma “consegne” di migranti, concordate fra trafficanti e organizzazioni umanitarie.

Una grottesca farsa su cui, il 19 aprile scorso, dopo quasi sette anni, il Tribunale di Trapani ha scritto la parola fine, smantellando l’intero impianto accusatorio e stabilendo che i fatti di cui i volontari tedeschi erano accusati non sussistono, non sono mai accaduti: non c’è mai stato nessun accordo segreto con i trafficanti, nessuna consegna di migranti; ci sono stati solo salvataggi, coordinati peraltro dalla Guardia costiera italiana. Non ci sarà dunque alcun processo e il sequestro della nave è stato revocato.

È una notizia che attendevo con ansia ormai da anni. L’attendevo fin dal giorno del sequestro e ancora di più dall’ottobre 2018, quando ho avuto l’onore di incontrare alcuni di quei giovani tedeschi accusati di crimini così infamanti. Avevano parlato davanti a un pubblico attento ed emozionato e rimasi colpito, ammirato dal loro coraggio, dalla determinazione che li aveva spinti a lasciare le aule universitarie per spingersi in mare a salvare vite, indignati dalla passività dei governi, incapaci di starsene con le mani in mano davanti alle tragedie che avvenivano in un mare che nemmeno bagna le coste del loro Paese.

Quella sera mi parve anche di vedere un velo di angoscia sul volto di alcuni di loro e fui assalito dalla tentazione di gridar loro di non tornarci mai più, in Italia. A quei giovani, che hanno l’età dei miei figli, avrei voluto raccomandare di non farsi incastrare da un Paese corrotto e perso, non farsi trascinare nel baratro di un dibattimento processuale inquinato dal pregiudizio e non affrontare la gogna mediatica orchestrata dai tanti giornalisti ossequiosi del potere. Avrei voluto urlar loro di fuggire, di andare a regalare ad altri il loro tempo prezioso e di non rischiare lunghi anni di carcere per aver solo fatto il proprio dovere, per essere stati veramente e profondamente umani.

Invece loro c’erano sempre. Hanno presenziato ad ogni seduta del tribunale, ad ogni dibattimento in cui si ascoltavano testimoni inattendibili e si analizzavano prove maldestramente fabbricate. Pure col rischio di veder scattare un giorno le manette ai polsi non hanno voluto rinunciare ad essere presenti. Hanno avuto ragione loro e io avrei avuto torto se avessi davvero detto loro le cose che pure, in cuore, ho conservato per tutti questi anni, perché non è vero che sono stati lasciati soli: la solidarietà di tanti si è stretta attorno a loro e li ha accompagnati ad ogni udienza, non tutti i giornalisti sono stati succubi, gli avvocati della difesa hanno fatto un paziente lavoro di ricostruzione dei fatti e i giudici, dimostrandosi indipendenti e capaci, hanno smantellato il castello accusatorio, provandone l’infondatezza.

Quando quei giovani studenti universitari, anni prima, avevano deciso di darsi da fare, perché nel Mediterraneo si moriva, non si erano comportati ingenuamente: avevano studiato tutti gli aspetti della questione, arrivando alla conclusione che i migranti annegano a causa di leggi sbagliate e disumane, le stesse che consentono a noi benestanti di viaggiare indisturbati ma bloccano poveri e perseguitati nei porti di partenza, spingendoli a viaggi pericolosi, eppure indispensabili per la loro sopravvivenza. Il progetto è nato da quel tanto di entusiasmo giovanile che è così essenziale per immaginare di poter cambiare le cose. Un progetto rigoroso, però, meticoloso, studiato nei dettagli: giorni e giorni trascorsi a discutere il modo e le ragioni, per essere certi di aiutare i migranti in pericolo senza favorire i trafficanti e per non fare solo soccorso, ma anche denuncia, per raccontare i fatti e spingere i governi all’azione. Così quei ragazzi hanno raccolto i soldi con un Crowdfunding, hanno riadattato un vecchio peschereccio e si sono imbarcati. Studenti universitari sono andati per il mare a salvare naufraghi e per questo sono stati perseguitati. Dal sequestro della Iuventa è cominciata la lotta contro chi salva le vite in mare, trasformando, agli occhi dell’opinione pubblica, dei partigiani moderni, armati solo di buone intenzioni, in banditi.

Nel film dedicato a questa storia dal regista romano Michele Cinque, imbarcatosi anche lui per documentare il lavoro dell’ONG tedesca, si assiste alla conversazione fra un volontario e un migrante, stremati e felici, alla conclusione di una giornata particolarmente intensa. Il tedesco chiede all’altro in che Paese gli sarebbe piaciuto fermarsi e quello risponde: “Mi piacerebbe restare in Italia, a Roma. Li c’è il Papa e io sono cattolico. Sarebbe bello vivere nella stessa città dove vive il Papa”. Sdraiati sul ponte della nave, parevano commoventi sognatori, due esseri umani intenti solo a parlare del futuro possibile, ignari degli eventi che da lì a poco li avrebbero travolti, trasformando l’uno in subdolo invasore e l’altro in losco trafficante.

Il sequestro della Iuventa e i sette anni di indagini che hanno portato alla fase processuale preliminare più lunga e inutile della storia giudiziaria italiana non erano il colpo di testa di un giudice con ansie di protagonismo ma la prima mossa di un oscuro disegno teso a distruggere l’immagine degli operatori umanitari che fanno quello che dovrebbero fare e invece non fanno le autorità. Questo, del resto, significa, il nome dell’ONG Jugend Rettet: “La gioventù salva”.

Quei ragazzi dovevo essere additati ad esempio di umanità e coraggio e sono stati invece criminalizzati, per quasi sette anni le loro vite sono state sul crinale. Ora potranno, forse, riavere un po’ di serenità: il 19 aprile per loro è stata la liberazione da un incubo. Ma la Iuventa, abbandonata nel porto di Trapani, è ormai ridotta ad un ammasso di ferraglia inservibile e non tornerà a solcare il Mediterraneo per salvare vite. Chissà poi che fine ha fatto quel ragazzo africano che avrebbe solo voluto vivere a Roma, dove c’è il Papa.

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