Se il nesso di casualità è chiaro, assurda appare però la logica degli aggressori: le vittime non hanno nulla a che fare con Israele e, per quel che ne sappiamo, potrebbero anche essere solidali coi palestinesi, avversare il governo di Netanyahu o, semplicemente, non avere alcuna opinione in merito.

Nel romanzo fantastorico “Here I Am”, pubblicato nel 2016, Jonathan Safran Foer ha raccontato la diffusa trepidazione, lo stato di costante allerta in cui vivono gli ebrei americani, coscienti che, anche nel paese che li ha accolti dopo le persecuzioni nazifasciste, la scintilla dell’odio potrebbe sempre scoccare. Non si sa quando e dove, ma è sempre possibile che cominci un nuovo pogrom, con un pretesto qualsiasi. La lettura di quello strano romanzo mi lasciò perplesso, stordito. Abitavo a New York allora, dove vive oltre un milione di ebrei, la più grande comunità fuori da Israele. È una presenza visibile, una componente indispensabile del melting pot della grande mela e mai ho avuto la percezione che nei loro confronti ci fosse ostilità. Investigando, scoprii però che l’antisemitismo ha una sua storia non irrilevante anche negli Stati Uniti e, analizzando le statistiche dell’FBI, appresi che negli USA gli ebrei sono, ancora oggi, il gruppo umano più frequentemente vittima di reati riconducibili all’odio razziale. Foer aveva dunque alcune buone ragioni: l’ostilità verso gli ebrei può riesplodere sempre, anche lì.

Fra gli attacchi di questi giorni quelli che colpiscono i simboli mi feriscono particolarmente. A Roma sono state imbrattate le pietre d’inciampo di quattro giovani ebrei morti ad Auschwitz: quattro innocenti perseguitati, deportati, assassinati. Che hanno a che vedere con il conflitto in corso in Medio Oriente? Qual è il senso di quella profanazione, per chi l’ha compiuta? Quel gesto dovrebbe lasciare tutti indignati, ma ho sentito anche minimizzare, con l’argomento che l’antisemitismo: “è solo una paranoia del passato che torna in auge quando Israele commette azioni criminali, perché non si sa come altrimenti opporsi ad una potenza militare spalleggiata dagli USA”. Credo sia una convinzione abbastanza diffusa e, a mio avviso, sbagliata. L’antisemitismo non è cosa del passato, continua a esistere in molteplici forme. Dorme nelle nostre coscienze ed è sempre pronto a riaffiorare, nei pregiudizi che non passano, negli stereotipi che riemergono, nelle battute fastidiose e grossolane che diciamo o tolleriamo. C’è sempre qualcuno pronto a rispolverare idee astruse di complotti sionisti, come hanno fatto di recente alcuni rappresentanti del governo italiano, citando la teoria della sostituzione etnica, per poi convertirsi, ipocritamente, in convinti sostenitori di Israele.

Anche nelle manifestazioni di solidarietà con i palestinesi sono affiorati segnali di pericolo. A Roma si è cantato: “From the river to the sea, Palestina will be free”. Se si guarda alla carta geografica, si capisce che pronunciare quelle parole significa rivendicare l’eliminazione dello Stato di Israele per sostituirlo con uno palestinese. Forse qualcuno crede sia possibile risolvere la questione palestinese provocando l’esodo di dieci milioni di cittadini israeliani. O forse chi cantava quello slogan non ne aveva comprese le implicazioni.

Tempo fa, parlando con una giovane artista romana, figlia di madre italiana e di padre palestinese, le ho chiesto come mai, nelle sue canzoni, non vi fosse traccia di una cultura che lei rivendica essere parte fondamentale della sua vita. Mi ha risposto che oggi non c’è spazio per parlare della Palestina, perché, dai fatti dell’11 settembre 2001 in poi, si tende a confondere la questione palestinese con il terrorismo islamico. Quella ragazza ha ragione: fino a poche settimane fa la Palestina era scomparsa dall’agenda politica e dai media. Continuavano ad occuparsene solo le Nazioni Unite, in rispetto del loro mandato, e i tenaci volontari di alcune organizzazioni umanitarie, coraggiosi e spesso maltrattati dalle autorità israeliane. Qualcuno di loro è ancora intrappolato nell’inferno di Gaza.

La Palestina era caduta nel dimenticatoio e il governo israeliano ne ha approfittato per aumentare l’oppressione, trascurare i suoi doveri di potenza occupante, approvare leggi gravemente discriminatorie, spalleggiare la prepotenza dei coloni, distruggere case e scuole, cacciare famiglie e occupare territori, rendendo sempre più una chimera la creazione di uno stato palestinese. 
Con la popolazione di Gaza massacrata dalle bombe le piazze di mezza Europa sono tornare a riempirsi. È auspicabile che questo risorto movimento si consolidi e continui, rimettendo la questione palestinese al centro dell’agenda politica internazionale. Per essere credibile, è necessario però che da esso venga espulso qualsiasi sospetto di antisemitismo: chi esalta le azioni di Hamas come “resistenza” non deve farne parte. La condanna del terrorismo, di qualsiasi matrice, così come di ogni atto di antisemitismo, deve essere assoluta e priva di ambiguità.

Questo movimento, che in questa fase ha contro di sé i governi europei, deve necessariamente raccordarsi con tutte quelle realtà della società civile che, in questi anni, hanno proseguito l’impegno a fianco dei palestinesi, denunciando soprusi, angherie e violenze israeliane, lavorando con i profughi a Gaza e in Libano, realizzando progetti di sviluppo in Cisgiordania. Sono queste organizzazioni a costituire il necessario collegamento con la società palestinese, consentendo di esprimere solidarietà concreta e fattiva. Anziché gridare slogan pericolosi e inneggiare a sanguinose vittorie i movimenti che invadono le piazze hanno la responsabilità di chiedere incessantemente che si smetta di uccidere e si cerchino soluzioni di giustizia, in armonia con il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite. Devono obbligare i propri governi a imboccare la strada di una pace giusta per tutti.

Per essere credibili, è necessario vigilare affinché a nessuno venga più in mente di dissacrare la memoria della Shoah col pretesto della solidarietà con i palestinesi. Senza queste caratteristiche il movimento pro-Palestina che sta rinascendo sarebbe destinato all’irrilevanza, soffocato dalle sue stesse contraddizioni.
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