Per poche settimane l’Italia mi passerà sotto i piedi, fra sentieri di montagna, spiagge dove il caldo è talvolta mitigato dalla brezza e città infuocate, affollate da turisti che si aggirano sfiniti fra basiliche e monumenti. 

Alla vigilia di ogni ritorno nel Belpaese “massacrato dal cemento” (come canta Francesco De Gregori), sento sempre un senso di oppressione, misto a ingenua eccitazione. Talvolta affiorano alla mente i versi di una canzone che Giorgio Gaber scrisse quando era già quasi consumato dalla malattia: “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Un’ambiguità che mi è appartenuta e che talvolta ancora oggi mi tormenta.

Sono italiano, sì, ma per nulla patriottico e non comprendo chi, come a volte capita, mi esprime l’orgoglio di essere italiano: non vedo che merito ci sia nel caso che ci ha fatti nascere in un posto, piuttosto che in un altro.

Se devo esprimere un’appartenenza mi piace semmai sottolineare che vengo dal Mediterraneo: ogni volta che mi trovo in un luogo che si affaccia su una sponda di quel mare la sensazione è piacevole, il sole carezza la pelle e i profumi di erbe aromatiche salgono alle narici; allora sento che qualcosa di antico, sepolto nel cuore, mi lega a quei posti, intessuti nei miei geni da molte generazioni. È quella la mia madre terra e, alla vista delle acque da cui “vergine nacque Venere” (come scrisse Foscolo in un famoso sonetto) mi sento come un navajo che si commuove quando cammina lungo i canyon che gli sono sacri. Ma tutto ciò nulla ha a che vedere con l’orgoglio, perché il Mediterraneo sarà pure la culla della civiltà europea, ma è anche il luogo dove affogano i migranti, nell’indifferenza generale.

Quindi, niente retorica su queste mie radici e sul mare che unisce tante terre, perché spesso le ha divise e so che, bagnandomi nelle sue acque, piangerò lacrime segrete perché, come ha scritto Erri De Luca: “toccano l’Italia meno vite di quelle che salirono a bordo”.

Ogni estate vado verso casa per ritrovare volti e sorrisi amati, ma l’Italia di questi tempi mi spaventa. È un’Italia in cui prevale la voglia di repressione, che non sopporta lo straniero e il diverso; apatica e indifferente, invasa dai manifesti rabbiosi e tristi della politica più squallida. È un Paese dove si muore di carcere, di lavoro e di femminicidio, che ha smarrito la bussola e va alla deriva in acque torbide.

Eppure, non vorrei andare con questo smarrimento nel cuore. Non vorrei sentirmi come Gaber alla fine della vita. Anche per questo studio e mi informo, alla ricerca delle mille realtà portate avanti da chi non accetta che l’Italia sia soprattutto quella che tradisce medici e infermieri, che va ancora a caccia di petrolio, che caccia la gente per costruire i piloni inutili del ponte sullo stretto, che manda i migranti nelle gabbie costruite in Albania e progetta la guerra prossima ventura. Cerco questa gente che non smette di sognare, di impegnarsi, di lavorare affinché l’Italia non sia questo.

Sono italiano perché in quella terra sono nato e cresciuto e quella cultura sfaccettata mi appartiene, così dolcemente bastarda, fatta di mille incroci, che ha tanti modi di vedere la vita e sa raccontarlo in decine di diversi idiomi locali. Sono italiano, ma non ho mitologie italiche da difendere: non credo nel “popolo di santi, poeti e navigatori” e, quanto all’ipocrita “italiani brava gente”, ci hanno già pensato gli storici a informarci che anche noi siamo stati colonialisti feroci e razzisti, mentre inseguivamo i miti della grandezza della stirpe e della razza ariana.

Non ho crisi identitarie se il Paese oggi è punteggiato di volti nuovi, anzi, mi sembra un buon antidoto alle follie fascio-nazionaliste e mi fa piacere quando, a spasso per le strade di Roma, sento parlare in italiano con accenti che alle orecchie suonano strani.

Non avevo ancora 20 anni quando ho sentito per la prima volta Viva l’Italia, bella canzone incisa da Francesco De Gregori nel 1979. In questi giorni, in cui la data dell’imbarco si avvicina, ho ripreso ad ascoltarla. Ho deciso di sentirla tanto e di canticchiarla anche per strada, con la gente che si gira a guardarmi; voglio ricordarla a memoria, per poterla poi sentire dentro quando i muscoli delle gambe bruceranno sui sentieri di montagna o i polmoni pulseranno in cerca di aria durante le immersioni nel Mare Nostrum. Perché l’Italia a cui rivolge lo sguardo il mio concittadino cantautore non è eroica, non ha miti da difendere; è anzi un Paese contraddittorio e doloroso, come tutti lo sono; è un’Italia in mezzo al mare, metà giardino e metà galera; un’Italia che si dispera ma che anche s’innamora, spesso con la testa sulla luna.

È il Paese che ha ammazzato un grande intellettuale come Pasolini e non gli ha reso giustizia, che ha coltivato il terrorismo nero e quello rosso, con i servizi segreti deviati, la strategia della tensione, la P2, Gladio, i missili nucleari a Comiso e tanto altro ancora. è un’Italia nuda e depredata, con il segreto di Stato che nasconde sempre ai cittadini la verità, cosicché non sapremo forse mai cosa davvero accadde nei cieli di Ustica la notte in cui il DC9 dell’Itavia cadde, né perché il governo italiano abbia rimpatriato con un volo di Stato un terribile criminale libico.

Ma, in definitiva, canta il poeta, è un’Italia che quando la notte si fa triste sa tenere gli occhi aperti. È l’Italia che ha saputo cacciare l’invasore e abbattere il regime, fondando la Repubblica, oggi minacciata ma ancora viva. È verso quel Paese che sto per imbarcarmi, per ritrovare i luoghi e la gente che mi è cara.

È l’Italia che 80 anni fa ha rialzato la testa e che, ancora oggi, in qualche modo, resiste.

stravagario.aladino@gmail.com