Non è facile seguire le vicende australiane vivendo all’incrocio di un grumo di Paesi della vecchia Europa: le notizie arrivano dagli antipodi smorzate, condizionate dallo scarso ruolo che l’Australia gioca nello scacchiere mondiale, periferica e appiattita sulle posizioni del potente alleato americano.
Del resto, perché a francesi, belgi e tedeschi dovrebbe interessare quale partito sia alla guida di un Paese lontano che ancora rende omaggio alla corona britannica? Per gli europei l’Australia resta una terra mitica, un luogo per vacanze esotiche, abitato da animaletti simpatici e da qualche indigeno che ancora suona il didgeridoo. Una terra anche pericolosa, infestata com’è da ragni, coccodrilli e serpenti.
In quel lampo di notiziari, non molti hanno avuto modo di cogliere il significato attribuito dagli osservatori al successo laburista. L’esecutivo diretto da Anthony Albanese non ha brillato, eppure è stato premiato con una valanga di voti e gli analisti qui hanno attribuito il merito dell’imprevisto successo elettorale alla cattiva campagna elettorale dell’opposizione: se Albanese ha trionfato, umiliando l’avversario, si è scritto, è perché i suoi oppositori hanno enfatizzato il modello trumpiano; gli slogan MAGA, adattati alla terra australe, avrebbero infastidito gli elettori fino al punto di far loro cambiare idea alle urne, in nome di un sentimento d’indipendenza e, forse, per l’istintivo disgusto che il tycoon provoca anche fra chi ne condivide le idee. La politica-spettacolo degli americani mal si addice alla noiosa compostezza dei politici australiani e Albanese avrebbe avuto buon gioco nell’affondare il colpo, ricordando che il Paese non ha bisogno di cercare altrove la propria identità e certamente non deve imitare gli Stati Uniti per quanto riguarda salute, lavoro, diritti.
Gli elettori australiani, del resto, sono in buona compagnia: sulla strada del rifiuto dell’influenza MAGA si accompagnano a canadesi e groenlandesi e persino a vescovi e cardinali che hanno eletto, sì, un papa statunitense, ma uno che sulle questioni sociali sarà una spina nel fianco di Trump.
Questo moto di orgoglio mi ha fatto piacere. In cuor mio spero che il Paese che ho lasciato quindici anni fa abbia conservato il suo spirito; mi auguro che in maggioranza gli australiani davvero si ritrovino nello slogan: “nessuno deve essere lasciato indietro” e spero che quelle parole alberghino nel cuore di coloro con cui ho condiviso un percorso di vita, che ci credano ancora gli amici che, quando un giorno annunciammo che ce ne saremmo dovuti andare, perché il nostro visto non poteva più essere rinnovato, si indignarono e si sentirono umiliati, perché, secondo loro, avevamo lo stesso diritto di restare che avevano loro, che in quelle terre ci erano nati.
Oggi vivo in un’Europa esasperata dai nazionalismi, un continente dove si torna a parlare di identità, dove i movimenti suprematisti si raggruppano sotto lo slogan della “remigration”, per urlare che chi non corrisponde a un certo modello etnico, chi non ha la discendenza nel sangue, deve essere cacciato via, anche qualora sia diventato nel frattempo cittadino di questo o quel Paese. Circondato da slogan sovranisti, mi torna in mente il microcosmo di Lochnorries Grove, la viuzza anonima, chiusa a cul-de-sac, di un sobborgo popolare di Melbourne, dove sono cresciuti i miei figli. In quella ventina di casette che si affacciavano sulla strada quieta, con gli alberi ben allineati, c’era un piccolo mondo, fatto di gente semplice, lavoratori di cui conservo un ricordo affettuoso.
C’era la famiglia macedone che aveva trasformato in orto anche il giardino davanti e, quando passavamo, ci regalava qualche verdura appena raccolta. C’era la famiglia di origine italiana della casa all’angolo che aiutavo spesso a sbrigare qualche faccenda burocratica. Accanto viveva un vecchio pensionato irlandese che mi sorrideva quando trovavo il tempo di andare a prendere i bambini a scuola e mi salutava dalla soglia urlando parole che facevo fatica a capire. Quasi davanti alla nostra casetta viveva una famiglia di origine greca e, accanto, John ed Enza, due australiani con le radici in Sicilia, che ci rasavano il prato quando andavamo in vacanza, senza che neanche glielo dovessimo chiedere.
Poco più in là vivevano due signore gentili e riservate, coi loro cani: una coppia gay anglosassone, accolta senza problemi in quella piccola comunità. Nella casetta alla nostra destra viveva una signora male in arnese, circondata da una selva di bambini in affidamento che scatenavano battaglie contro i nostri fiori. Dalla parte opposta c’era una famiglia più tradizionalmente anglosassone, molto riservata, la cui figlia era spesso a giocare da noi ma alle cinque in punto veniva richiamata per la cena. Poco più giù abitava una famiglia libanese con tanti bambini e la signora, sempre indaffarata, scambiava volentieri due chiacchiere con chiunque del vicinato si affacciasse a salutare. Persino una coppia di aborigeni litigiosi ha transitato per qualche tempo nella casa più fatiscente della via. A chiudere il quadretto c’era la guardiana della via: una signora che abitava nella casetta proprio in fondo alla strada e, da quel punto strategico, bevendo il tè affacciata alla finestra del salotto, poteva controllare l’andirivieni e sapere tutto di tutti.
Lochnorries Grove era, insomma, un piccolo mondo australiano, un palcoscenico dove si rappresentava quel multiculturalismo di cui tanto si discuteva in quegli anni, un posto qualsiasi, abitato da gente semplice, senza status symbol da difendere, sostanzialmente tollerante ed accogliente. Nessuno ti chiedeva nulla del tuo passato e non importava da dove venissi: per il tempo che trascorrevi lì, eri uno di loro. Non mancavano le tensioni, ma quei piccoli incendi finivano per spegnersi rapidamente, con spiegazioni, scuse e strette di mano.
Non so come votassero quei miei vicini di casa, perché di politica non si parlava mai, ma spero che questa volta, recandosi alle urne, fossero tutti indignati all’idea che qualcuno potesse cercare di portare l’ideologia MAGA in quel sobborgo dove la mescolanza delle lingue e dei profumi era data per scontata. A Lochnorries Grove Trump non sarebbe il benvenuto e, a pensarci, un vicinato così ci vorrebbe un po’ dappertutto nel mondo.