Dal giugno 2020 le strade dell’Araucania, regione centromeridionale del Cile, sono presidiate dai militari, col mandato di contrastare la criminalità e proteggere i cittadini. Dalla fine del regime di Pinochet non era più accaduto che venisse mobilitato l’esercito per questioni di ordine pubblico e questa misura ha scosso gli animi, perché l’Araucania è la terra del popolo mapuche e nella memoria degli indigeni brucia ancora il ricordo della brutale repressione subita negli anni della dittatura, tanto da spingerli a considerare l’attuale presenza dell’esercito nei loro territori un’occupazione.

Per secoli i mapuche hanno difeso la propria libertà, fermando sia l’avanzata dell’impero inca che quella dei conquistadores spagnoli. La loro resistenza è stata vinta solo dal Cile che, alla fine dell’Ottocento, liberatosi dal giogo spagnolo, celebrò l’indipendenza con una crudele guerra di conquista, durata trent’anni, alla fine della quale gli indigeni persero la quasi totalità dei loro territori. Il governo cileno, infatti, concesse loro solo piccole riserve, distanti fra loro, chiamate “riduzioni”: poca terra, nemmeno sufficiente alla sopravvivenza. I mapuche furono costretti in gran numero a emigrare verso le città, dove ancora oggi sono colpiti dal pregiudizio e dalla discriminazione che tutti gli indigeni subiscono, in America Latina, da parte della popolazione di origine europea.

L’aspetto straordinario di questo popolo, che oggi rappresenta il gruppo più povero del Paese, è di non aver mai perso identità e fierezza. Cosicché gli indigeni, due secoli dopo, ancora rivendicano la loro differenza, reclamano diritti, chiedono la restituzione delle terre depredate. La loro lotta oggi è prevalentemente politica e non violenta, ma non per questo meno tenace. 

Potrebbe sembrare un vecchio racconto della frontiera; invece, è una storia di oggi e ci riguarda tutti, non solo per quell’umana solidarietà che i popoli oppressi dovrebbero sempre smuovere, ma anche per l’attualità della posta in gioco. Da alcuni decenni, infatti, i mapuche lottano contro un nuovo tipo di nemico: le compagnie forestali e le industrie estrattive che stanno distruggendo e impoverendo il loro territorio. Le loro proteste sfociano, di tanto in tanto, in azioni di vero e proprio sabotaggio ed è questa è la vera questione di fondo, quella che ha provocato l’intervento militare.

Nel maggio 1982, in piena dittatura, i rappresentanti mapuche pronunciarono parole provocatorie per la giunta al potere: “Costituiamo un popolo e una cultura che ci differenzia dal resto della società cilena; vogliamo mantenere le nostre radici e sviluppare i nostri valori, non essere trattati come folklore per turisti”. 

Il governo militare aveva scatenato la repressione nelle riduzioni indigene proprio perché la cultura comunitaria della società mapuche era intrinsecamente avversa all’ideologia del regime. La gestione collettiva della terra, che gli indigeni praticano da sempre senza titolo individuale di proprietà, ne impediva l’espropriazione e la vendita, corollari indispensabili dei piani di sviluppo del governo, che individuavano nella piccola proprietà contadina tradizionale un ostacolo alla modernizzazione dell’agricoltura e all’apertura del settore al commercio internazionale. Il governo cileno aveva varato in quei giorni una legge con l’obiettivo di privatizzare le terre gestite dagli indigeni. Nelle riduzioni si capì subito che era lo strumento di una politica tesa all’etnocidio e si rispose chiedendo che venisse piuttosto promulgata una normativa tesa alla protezione delle risorse naturali del Paese, a cominciare dai grandi boschi di araucaria, distrutti dalle imprese forestali. Quei rappresentanti degli indigeni, riuniti in assemblea quattro decadi fa ci appaiono così, oggi, illuminati precursori di politiche di difesa della biodiversità di cui sperimentiamo drammaticamente l’urgenza.

Eppure, nel referendum del settembre 2022, gli elettori cileni hanno bocciato il testo di riforma costituzionale che abbozzava un percorso nuovo nel rapporto fra il Paese e le sue comunità indigene. La bozza respinta introduceva il concetto di “Stato plurinazionale” riconoscendo i popoli originari come soggetti portatori di una specifica identità, ma la maggioranza dei cileni ha temuto che questa riforma potesse spezzare l’unità nazionale. Il nuovo assetto costituzionale avrebbe riconosciuto ai popoli originari il diritto alla terra, alle risorse naturali, alla giustizia tradizionale, obbligando lo Stato ad azioni riparatorie per le persecuzioni e i furti del passato. Secondo il rappresentante indigeno José Nain Perez si sarebbe trattato di: “Un importante passo in avanti, in vista di un negoziato tra stato cileno e popolo mapuche, per una soluzione del conflitto e per salvare l’ambiente, minacciato dalle imprese forestali”.

Per i mapuche il territorio è uno spazio comunitario nel quale vivere in armonia con la natura. Il modello economico del Cile, invece, si basa sullo sfruttamento intensivo delle risorse. Fra queste due visioni non c’è mediazione possibile e questa contraddizione si evidenzia proprio nella questione dell’espansione dell’industria forestale estrattiva, voluta dalla giunta militare per promuovere lo sviluppo industriale mediante le imprese dedite alla produzione di carta, cartone e cellulosa. Sostiene in merito José Nain Perez: “Il popolo mapuche e le imprese forestali non possono coesistere nello stesso territorio ed è chiaro che ad andarsene devono essere le imprese, le quali hanno provocato un danno irreparabile alla biodiversità e agli ecosistemi, hanno impoverito, isolato ed espulso le nostre comunità e hanno determinato la scomposizione del tessuto socioculturale del nostro popolo. Questa è la nostra visione, di noi che soffriamo per la mancanza d’acqua e la perdita di biodiversità”.

L’incredibile resilienza di questo popolo e la sua lunga resistenza meriterebbero il sostegno internazionale. Come ha scritto la studiosa Maria José Andrade, l’usurpazione storica dei territori mapuche ha avuto conseguenze disastrose non solo per la comunità indigena, ma anche per l’ambiente. Il modello estrattivo ha distrutto tanto il patrimonio culturale che quello naturale. La restituzione delle terre alla nazione mapuche, oltre a riparare ingiustizie secolari, porterebbe beneficio al Paese e al mondo intero, con il rilancio della biodiversità e un uso equilibrato del territorio. Le foreste di araucaria forse tornerebbero al loro splendore, se accudite dai loro antichi custodi.

stravagario.aladino@gmail.com

Miguel A. Cabezas Ibarra, cileno, fin da ragazzino è stato affezionato all’Italia, di cui conosce perfettamente la lingua e la cultura. Esiliato in Inghilterra come perseguitato politico durante la dittatura, lì ha fatto amicizia con tantissimi italiani.  Tornato nel suo paese, è poi emigrato a caccia di futuro, per approdare infine a Sydney, dove vive ormai da anni, partecipando però sempre alle attività della comunitò italo-australiana. La sua vicenda umana, insomma, collega Cile, Italia e Australia e le vicende raccontate in questo articolo.

Lo ringrazio per avermi aiutato a scrivere sui mapuche, per avermi autorizzato a pubblicare questa sua bellissima poesia e per aver rigorosamente verificato la mia traduzione dallo spagnolo, spingendomi verso la giusta direzione.

 

E i mapuche?

E i mapuche? Mi chiede la coscienza.

Sarà che non ti importa nulla dei mapuche?

delle loro spoglie, dell’angoscia, dei loro figli?

Di quei volti dai sorrisi disabitati?

 

Ah! Enorme è la mantella della mia coscienza.

Imparerò, un giorno, a camminarci dentro?

A camminare diritto, senza calpestarla?

Se strapparmela, se gettarla via potessi!

 

Nulla, allora mi darebbe preoccupazione:

le loro montagne, i fiumi, i canti, la dignità.

La mia candida coscienza, le loro cianfrusaglie:

Ebbene, ogni cosa ha il suo prezzo, giusto?

 

Nella scuola dei bianchi l’ho imparato:

Tutto e tutti, alla fin fine, hanno il loro prezzo.

Sì, ma allora provaci tu a convincere un mapuche!

Da quale dimensione provengono mai questi signori?

 

Non stare a parlarmi di radici e di antenati,

Di origini e di dignità che non ha prezzo,

Perché sento questa mantella indigena,

Come una placenta che va cingendomi il petto.

 

Sì, sì, sì, maledetta coscienza mia!

Lascerai mai che io resti indifferente?

Se potessi essere come i miei compaesani!

Trionfatori, orgogliosi, arroganti.

 

Ma questa mantellina mi mordicchierebbe,

Persino i miei fratelli mi direbbero che sono,

Che forse il loro sangue mi scorre nelle vene.

Maledetta coscienza mia, ben ti conosco!

Miguel A. Cabezas Ibarra

Sydney, settembre 2010