Da mesi i discendenti di Cavallo Pazzo, dichiaratisi Water Protectors, guardiani dell’acqua, protestavano per impedire il passaggio sulle loro terre di un oleodotto, che minacciava di danneggiare luoghi sacri e inquinare il fiume Missouri, che scorre ai margini della riserva. Quella protesta era diventata un caso nazionale: gli abitanti della contea più povera degli Stati Uniti avevano ispirato un movimento vasto e spontaneo in tutto il paese. Era dalla fine degli anni Settanta che gli indiani non facevano notizia.

Da un secolo e mezzo gli indiani del Nordamerica vivono sul filo dell’oblio. Il 29 dicembre 1890, consumato l’ultimo grande massacro a Wounded Knee, è calato il sipario sulla frontiera e gli indiani sono scomparsi dal discorso pubblico, o hanno continuato ad esistere solo come mitologia e folklore; immagini di repertorio buone per i film western. I discendenti di quelle tribù però non ci stanno ad essere raffigurati solo come tragici eredi di una sconfitta. Essi non hanno mai cessato di esistere e resistere, adattandosi alla nuova realtà.

Un esempio è Josephine Tarrant, artista hopi nata e cresciuta nel Bronx. L’ho conosciuta in un teatro di New York dove aveva messo in scena uno spettacolo ispirato alla Commedia dantesca per descrivere l’inferno vissuto per cinque secoli dai popoli indigeni. “Da noi ci si aspetta sempre che facciamo gli indiani” disse, conversando col pubblico, “Vorrebbero che uscissi di casa con le penne in testa, recitando una preghiera al Grande Spirito. Ma io sono una donna come tante, con figli da mandare a scuola e conti da pagare”. Si esibisce con i Silver Cloud, band composta da indigeni di varie tribù, figli e nipoti di quegli indiani che, a metà del Novecento, furono cacciati dalle riserve e mandati ad affollare i ghetti urbani. 

Perché la guerra contro gli indiani è continuata nel ventesimo secolo, non più condotta con le armi ma con leggi destinate a gestire quel che restava dei popoli nativi, con l’intento di trasformarli in americani, mediante una brutale politica di assimilazione, nello spirito della dottrina: “Uccidi l’indiano, salva l’uomo”, lanciata da un militare convinto che i nativi potessero essere: “addomesticati come tacchini”, estirpandone la cultura. Il provvedimento culmine di quella politica, il Termination Act, emanato nel 1953, imponeva la graduale chiusura delle riserve e la dispersione degli abitanti. Una legge orwelliana, rimasta in vigore fino al 1970, con effetti devastanti. Decine di migliaia di indiani persero tutto e furono costretti a migrare nei ghetti delle città: un tentativo di genocidio culturale, ammantato di buone intenzioni.

Ma l’urbanizzazione forzata non portò solo disperazione: nel miscuglio etnico dei ghetti i nativi svilupparono un senso di appartenenza intertribale sconosciuto alle precedenti generazioni. Finirono per sentirsi non più solo membri di una particolare tribù ma “indiani” nel senso più ampio del termine, costituendo un’identità più complessa, che prima non esisteva. Fra quei nuovi indiani metropolitani nacquero i movimenti di rivendicazione, radunati sotto l’etichetta del Red Power, che agitarono le acque della politica negli anni Settanta con azioni clamorose, senza però ottenere sostanziali progressi.

Finita male quella stagione di lotte, gli indigeni rivolsero l’attenzione verso le loro stesse comunità, per capire come migliorarne le condizioni di vita. Un attivismo che l’antropologo e nativo David Treuer ha definito capitalismo tribale, osservando: “solitamente si guarda alle riserve come a luoghi di squallore e miseria mista a folklore per turisti in cerca di emozioni, e molte riserve sono ancora tutto questo. Ma sono anche luoghi contraddittori dove, accanto a chi vive in maniera tradizionale, si sviluppano le attività economiche più imprevedibili”. E non c’è gruppo tribale che non abbia il suo sito promozionale: gli indiani del duemila navigano nella rete, come tutti.

Però, dagli anni Settanta, gli indiani non facevano notizia. Per questo i fatti di Standing Rock hanno sorpreso tutti: quella protesta non ha precedenti nella storia recente. In primavera poche decine di giovani sioux si erano accampati al confine della riserva per impedire i lavori e nell’autunno quel campo ospitava già quindicimila persone, fra rappresentanti di oltre trecento tribù, attivisti di organizzazioni per la difesa dei diritti umani e semplici cittadini, arrivati da ogni parte del paese per sostenere quella lotta. La piattaforma politica ha finito per inglobare la questione climatica, la critica al modello di sviluppo e la denuncia dell’impatto ambientale dei mega-progetti. Tra spiritualità indigena e rivendicazioni politiche i guardiani e le guardiane dell’acqua hanno saputo suscitare la simpatia di migliaia di americani e fatto germogliare un nuovo movimento ambientalista ben oltre i confini della remota riserva.

La storia è finita male. La repressione è stata fortissima ed i pacifici sioux hanno dovuto cedere alla brutalità del potere. Molti si sono interrogati su quella sconfitta, chiedendosi se tutto non fosse stato invano. Forse non lo è stato, perché quella lotta ha ispirato molti. In tutti gli Stati Uniti varie comunità alle prese con mega progetti infrastrutturali o con il fracking hanno lanciato campagne ispirate a quella di Standing Rock. Nelle riserve si assiste a un nuovo protagonismo dei giovani, soprattutto delle donne e si sono consolidati nuovi rapporti fra gruppi tribali e movimenti per i diritti civili. Tutto ciò è nato grazie a quella lotta e il futuro potrebbe riservare interessanti sorprese se fra i giovani indiani prendesse il sopravvento un nuovo movimento comunitario intertribale, ispirato alla resistenza di Standing Rock. La rinascita della morente democrazia americana potrebbe essere ispirata proprio dai discendenti di Cavallo Pazzo. 
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