Alexander Langer è ricordato come un politico e giornalista italiano, protagonista di molte battaglie, che, nel 1995, in preda alla depressione, si tolse tragicamente la vita. Per me e per molti altri Langer rappresenta, ancora oggi, uno degli esempi più brillanti e tormentati di ecopacifismo, un uomo mite e amichevole, di grande sensibilità e di acuta intelligenza, uno che ha rifiutato di essere inquadrato negli schemi imposti da certe norme e che ci ha lasciato in eredità un patrimonio di esperienze concrete e di elaborazioni critiche sulle quali è ancora necessario riflettere e approfondire. Meglio un anno di trattative che un giorno di guerra, è uno dei suoi aforismi più noti e amati, costruito parafrasando il bellicista “giorno da leoni”, caro al regime fascista.
Dal 1997 la Fondazione dedicata a proseguire e valorizzare l’opera di Langer assegna un premio a persone che, “con scelte coraggiose, indipendenza di pensiero e forte radicamento sociale”, siano capaci di illuminare situazioni emblematiche e strade innovative per la promozione dei diritti contro ogni discriminazione, per la ricerca di soluzioni solidali, democratiche e giuste ai conflitti, per la promozione di azioni concrete in direzione di una conversione ecologica dell’economia, del lavoro e degli stili di vita. L’edizione 2023 del premio è stata assegnata, con scelta illuminata, a Olga Karach, la pacifista bielorussa fondatrice dell’organizzazione Our House, che ha subito il carcere e le torture prima della fuga in Lituania, da dove continua il suo coraggioso impegno, minacciata di morte dai servizi segreti del regime di Lukashenko e osteggiata anche dalle autorità del paese che la ospita, che le ha rifiutato l’asilo politico e minaccia di rispedirla fra le braccia dei suoi aguzzini.
La Karach ha ritirato il premio a Roma, presso la Camera dei deputati, ed è stata l’occasione per accendere i riflettori sulla storia, poco nota, degli obiettori di coscienza e dei disertori dell’Est europeo e di chi li aiuta, nella quasi indifferenza o aperta ostilità che li circonda.
Nel discorso tenuto alla Camera in occasione della consegna del premio la Karach ha ricordato che: “Oggi, coloro che si rifiutano di prendere le armi e non vogliono andare al fronte – obiettori di coscienza e disertori – sono diventati criminali e non sono i benvenuti da nessuna parte. In Bielorussia, la diserzione è punita con la pena di morte e il rifiuto di arruolarsi nell’esercito comporta il carcere. Nel 2022 circa 400 uomini sono stati condannati per aver rifiutato l’arruolamento. La polizia bielorussa ha dichiarato ricercati circa 5.000 bielorussi espatriati, per essersi sottratti al servizio militare e nessuno fornisce loro protezione; non hanno uno status giuridico e nemmeno un visto umanitario.
Al contrario, in Lituania queste persone sono considerate una minaccia per la sicurezza nazionale e vengono inserite in una lista nera con divieto di ingresso nell’Unione Europea per cinque anni. Questi uomini vengono addirittura deportati in Bielorussia. Noi aiutiamo queste persone e per questo subiamo pressioni e siano soggetti alla repressione”.
Le difficoltà che incontrano i bielorussi in fuga dall’arruolamento sono un fatto paradossale, una vergogna per l’Unione Europea. Basti pensare che, rifiutando la leva, i bielorussi non solo si oppongono al regime corrotto del presidente mafioso Lukashenko, ma rifiutano anche di partecipare alla guerra di Putin, in quello stesso conflitto che vede l’Europa decisamente schierata con l’Ucraina.
Ma l’impegno di Our House va oltre la questione dell’assistenza fornita a bielorussi in fuga. L’organizzazione, infatti, si schiera nel solco di quella corrente del pacifismo che mette in discussione l’intera costruzione teorica che, dall’invasione dell’Ucraina in poi, spinge i Paesi europei verso politiche belliciste e un incessante riarmo.
Le parole della Karach a Roma sono state chiarissime: “Oggi più che mai, quando incombe la minaccia della Terza guerra mondiale, la voce della ragione e della nonviolenza deve essere più forte. Voglio alzare la voce per la pace nella nostra regione, perché oggi tutto è stato stravolto. Abbiamo bisogno di una tribuna che parli per la pace e in nome della pace. Sono convinta che nessuna arma al mondo possa porre fine alle guerre, non c’è una soluzione militare. L’unico modo per porre fine alle guerre è che le persone accettino di non usare la violenza e di vivere in pace gli uni con gli altri.
La nonviolenza, attiva e coraggiosa, è la nostra unica via verso la pace. La militarizzazione e la propaganda di guerra non porteranno la pace nella regione dove, anzi, parlare di pace è diventato tossico. Tutti i governi amano parlare di pace e sicurezza, ma pace e sicurezza vengono meno proprio per le loro scelte militariste. Per queste ragioni sono qui a dire che la nonviolenza è l’unica strada da percorrere e chiedo da voi tutti il sostegno alla Campagna di Obiezione alla guerra promossa dal Movimento Nonviolento e da altre associazioni per sostenere gli obiettori, i disertori e gli attivisti per la pace in Ucraina, Russia, Bielorussia, Israele e Palestina. Tutti insieme possiamo davvero costruire la pace. Lavorare concretamente per la pace significa anche abbandonare la logica del più forte, smettere di perseguire politiche di riarmo, con lo scandalo del commercio degli armanenti, come ci ripete sempre papa Francesco.
Lavorare per la pace significa prendere sul serio i colloqui di pace e i negoziati, investire risorse nella diplomazia, anche quella popolare e dal basso, restituire all’Onu il ruolo di attore super partes per una politica di pace con un obiettivo ben chiaro: conferenze internazionali di pace per l’Ucraina e la Palestina”.
Sono parole che rientrano pienamente nel solco di un’idea di pace vicina alle posizioni del pacifismo europeo oggi disprezzato e umiliato. Idee lontane anni luce dalle elucubrazioni politiche che spingono al folle riarmo mondiale.
Dopo Roma la Karach è partita per un tour di incontri e conferenze in varie città italiane. Spero che in molti l’abbiano ascoltata e siano stati ispirati dalle sue parole a rimboccarsi le maniche e a lavorare per la pace, quella vera, non quella delle armi.