Negli USA, invece, non ho mai trovato nemmeno una targa o una stele che ricordasse gli esseri umani liquefatti nel fungo radioattivo. Laggiù vale ancora la posizione ufficiale delle autorità: il bombardamento nucleare sul Giappone fu, secondo il governo statunitense, un atto legittimo, che consentì di accorciare la guerra nel Pacifico, salvando molte vite umane, forse un milione, secondo la propaganda dell’epoca.

Si racconta che, quando l’entità della distruzione venne compresa nella sua immensità, il “padre” della bomba, il fisico teorico Robert Oppenheimer, abbia pronunciato parole che restano nella storia della scienza: “I fisici hanno conosciuto il peccato. È una conoscenza che non potranno più perdere”. Eppure, la morte atomica non poté certo cogliere di sorpresa gli scienziati che avevano lavorato alla costruzione della bomba: erano stati assoldati proprio affinché ingegnassero il modo di contenere la reazione atomica in un ordigno di spaventosa potenza. Essi non avevano ancora una conoscenza accurata di quali sarebbero state le conseguenze a lungo termine della contaminazione radioattiva di aree densamente popolate, ma erano ben consapevoli di quanto sarebbe accaduto nell’istante dell’esplosione, per un raggio di molte miglia attorno a Ground Zero.

Il progetto, del resto, non si era fermato nemmeno quando era ormai certo che Hitler non avesse più le risorse necessarie per costruirla lui, l’arma atomica. Quando tutto fu pronto, la Germania era sconfitta e il Giappone agonizzante, eppure, si decise di andare avanti, battezzando, in sovrappiù, con nomignoli ridicoli, i due micidiali ordigni.

In termini di incassi, Oppenheimer è il maggior successo mondiale tra i film che raccontano la Seconda guerra mondiale. In Occidente ha suscitato prevalentemente commenti positivi, elogiato per l’accuratezza storica e la precisione filologica nell’esporre la complessità del “Progetto Manhattan”. Filtrata attraverso la lente delle persecuzioni maccartiste, la storia si dipana lenta, per poi assumere il ritmo concitato del thriller nella scena madre, quella che racconta di quel fatidico 16 luglio 1945, quando il primo test della storia dimostrò che l’uomo poteva governare la reazione atomica e utilizzarla per la guerra. Nel film, dopo i brindisi e le felicitazioni, gli scienziati lasciano il passo ai militari e sul loro lavoro cala il sipario. 
Ma, venti giorni dopo, li vediamo celebrare assieme un’ultima volta, dopo che i funghi atomici sono apparsi nei cieli del Giappone, non più ipotesi o esperimento, ma morte e disperazione.

Prima ancora di vederlo ho sperato che l’opera di Christopher Nolan sarebbe stata una buona occasione per riaprire il dibattito su quegli avvenimenti. Non vedo altro motivo per realizzare un film dai costi esorbitanti su quella vecchia storia, di cui oggi si potrebbe tornare a parlare, senza essere influenzati dalla propaganda di guerra che imperava all’epoca.

Su vari aspetti storici il film avrebbe potuto accendere i riflettori. Poteva spingere a riflettere sul rapporto fra scienza e potere e su cosa accade quando gli studiosi mettono la loro conoscenza al servizio di un progetto solo mirato alla distruzione. Si sarebbe potuto discutere della scelta di usare la bomba, comunque, anche a nemico ormai quasi vinto. Si sarebbe potuto rilanciare un dibattito, da troppo tempo sopito, sul fatto che fra le varie opzioni sul tappeto si scelse di colpire due città, anziché obiettivi militari.

Il film poteva essere anche occasione per discutere delle conseguenze storiche di quegli eventi, che hanno di gran lunga travalicato la capitolazione del Giappone, con la proliferazione degli armamenti nucleari, la teoria della deterrenza e la nascita di un club di grandi e medie potenze che si sono arrogate il diritto di possedere immensi arsenali nucleari rendendo possibile l’apocalisse. Si sarebbe potuto riflettere sulle parole di Truman che suonano oggi come una bestemmia: “Abbiamo scoperto la potenza atomica e l’abbiamo usata. Ringraziamo Dio che sia venuta a noi e non ai nostri nemici e preghiamo che egli ci guidi affinché noi la usiamo secondo le sue vie e la sua volontà”.

In Occidente, invece, il dibattito sul film si è concentrato soprattutto sugli aspetti estetici, lo spessore dei personaggi, l’onore perduto di un grande scienziato che, da eroe nazionale, è diventato traditore della patria per le sue sospette simpatie politiche. Occasione, dunque, in gran parte mancata e, forse, nemmeno cercata. 

Se il film si fosse troppo distaccato dalle versioni ufficiali probabilmente il successo al botteghino sarebbe stato più modesto. E allora tutto, alla fine, porta alla scena madre, alla spettacolarizzazione del primo test atomico, agli scienziati in festa per il successo del loro lavoro, costato centinaia di migliaia di vite.

C’è l’esaltazione dell’ingegno umano, ma nessuna pietà per le vittime. A quasi ottant’anni di distanza da quei tragici avvenimenti, ancora, in Occidente, non siamo capaci di metterci nei panni degli Hibakusha, i sopravvissuti all’olocausto nucleare. Ancora ignoriamo la loro storia, che continua, fino ad oggi.
Ben diverse sono state le reazioni in Giappone, dove il film ha provocato un contraccolpo di critiche che possono essere riassunte usando le parole di Yuki Miyamoto, insegnante di etica alla De Paul University di Chicago: “Non esiste altro genocidio al mondo che sia così popolare nella cultura pop e rappresentato in modo così caricaturale”.

Figlia di una sopravvissuta, Miyamoto si è trasferita dal Giappone negli USA da due decenni proprio per portare laggiù la voce degli Hibakusha e far conoscere un punto di vista diverso. Ma sono ancora pochi, in Occidente, quelli che sanno quale fu il destino di chi venne spinto dentro quella nuvola di immenso calore e veleno radioattivo.

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