Oggi viene descritto in tanti modi, da “contadino ed ex Presidente dell’Uruguay” a “politico e guerrigliero uruguaiano”, ma tutti gli riconoscono di essere stato un politico onesto e un visionario che non ha ceduto al compromesso. 

Dal canto suo Mujica ha sempre respinto ogni idealizzazione della sua figura, rifiutando di diventare una specie di mito: “non chiedetemi di essere perfetto, non lo sarò mai. Ho solo sempre cercato di essere un uomo, con la sua dignità”. Quando ha saputo di essere stato candidato al Nobel per la pace è scoppiato a ridere: “sono pazzi”, ha detto, “la pace è qualcosa che si porta dentro e io il premio già ce l’ho, nell’abbraccio della gente comune”. Anche in questa umiltà risiedeva il carisma che lo ha reso molto amato in tutto il mondo. Di lui qualcuno ha scritto: “Mujica è l’uomo nuovo della nostra modernità, uno che non pretende di imporre le sue convinzioni, semplicemente le mette in pratica”.

Classe 1935, discendente di immigrati liguri, Mujica è passato dalla guerriglia al carcere, alla politica, fino a diventare il presidente più amato del suo paese, sorta di Sandro Pertini uruguaiano. Le ragioni di questo affetto sono tante. Da presidente ha condotto un’esistenza semplice, rifiutando i fasti del palazzo presidenziale, continuando a vivere nella sua modesta fattoria alla periferia della capitale e a guidare una vecchia automobile scassata. Benché fosse piuttosto povero, ha devoluto in beneficenza il 90% del compenso che gli spettava e, alla conclusione del mandato, si è ritirato a vita privata, senza approfittare della notorietà per guadagnare gettoni di presenza in giro per il mondo o diventare testimonial di campagne. È tornato a fare il contadino e l’attivista.

Da presidente Mujica si è impegnato per migliorare concretamente le condizioni di vita del suo popolo, promuovendo anche riforme coraggiose, dalla legge sul matrimonio omosessuale alla decriminalizzazione dei tossicodipendenti. Ma va ricordato soprattutto per la sua battaglia politica ed etica, costantemente incentrata sul tema del diritto alla felicità di ogni essere umano, non come concetto astratto, ma come utopia concreta, da applicare anzitutto a sé stessi, ogni giorno della vita: “Come tutti gli esseri umani, nessuno escluso, rivendico il diritto alla mia felicità”.

Per Mujica la felicità andava ricercata da ciascuno nelle cose che fanno piacere e non doveva trattarsi di una ricerca egoistica ma tradursi anche in un impegno costante per la felicità di tutti. Collegava questa ricerca alla questione del tempo che, secondo lui, non doveva essere sprecato nell’illusione che il benessere materiale possa portare un giorno la felicità. Per questo, come corollario, aveva elaborato una concezione anticonsumistica, sostenendo che il principio guida di una vita pienamente vissuta dovesse essere quello della sobrietà, da non confondersi però con l’austerità, che dal suo punto di vista era invece la china rovinosa che porta alla povertà dei ceti inferiori.

Mujica riconosceva infatti l’importanza e anche l’indispensabilità del mercato e non disconosceva il fatto che il capitalismo produce una ricchezza che, se redistribuita, attraverso le tasse, serve a fornire servizi a chi altrimenti non potrebbe permetterseli; rifiutava però il ruolo totalizzante assunto nella mentalità comune dalla ricchezza come produttrice di felicità, sosteneva anzi come la ricchezza complicasse la vita: “Viviamo in un mondo nel quale si crede che colui che trionfa debba possedere tanto denaro, avere privilegi, una casa grande, maggiordomi, tanti servitori, vacanze extralusso. Penso che questo modello vincente sia solo un modo stupido di complicarsi la vita, che chi passa la vita ad accumulare ricchezza sia come un tossicodipendente che andrebbe curato. Non è bene sprecare la vita nel consumismo, piuttosto bisogna trovare il tempo di vivere, per essere felici”. Mujica sosteneva perciò che a guidare la vita di ciascuno dovesse essere la sobrietà: “consumo il necessario ma non spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli e il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari, bisogna conservarlo, per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo da dedicare a sé stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui che però ti tolgono il tempo per vivere. Lo spreco, invece, è funzionale all’accumulazione capitalista, che implica che si compri di continuo, magari indebitandosi sino alla morte. Non faccio alcuna apologia della povertà, intendiamoci, solo della sobrietà”. Sono parole che mio padre, nato contadino negli anni Venti del Novecento, avrebbe sottoscritto senza esitazione, lui, che ogni volta che qualcuno cercava di spingerlo a comprarsi una camicia nuova rispondeva senza esitazione: “a che mi serve”?

Mujica rifuggiva dal ruolo di guru e a chi cercava di farsi suo discepolo rispondeva: “Non chiederti come vivo io, non fare come me, perché siamo diversi. La sobrietà, nella forma che ho scelto io, è la mia via, quella su cui io incontro la mia felicità. Tu prova a chiederti dove troverai la tua, non conformarti, osa seguire la tua strada”.

Ora “Pepe” Mujica se n’è andato e non so se ha lasciato un vuoto, se ci ricorderemo di lui a lungo o se sarà presto dimenticato. Ma mi guardo attorno, osservo il disastro di un pianeta ferito, vedo molte avidità e molte infelicità e sono convinto che quel suo messaggio, in fondo semplice, dovrebbe risuonare nella profondità delle nostre menti e guidarci almeno un po’ o almeno disturbarci, renderci dubbiosi su come conduciamo l’esistenza.

Forse il Nobel per la pace a un ex guerrigliero sarebbe stata davvero una pazzia, ma se quel suo pensiero camminasse per il mondo, se risuonasse nelle aule scolastiche e fra le comunità in cammino, qualche fiore di pace e di futuro potrebbe davvero farlo sbocciare.
stravagario. aladino@gmail.com