La passione per quel piatto semplice e genuino m’è rimasta ma, oggi, quando affetto i pomodori, mi sale alla bocca l’amaro ancor prima di assaggiarli, perché so che su ogni pomodoro che mangio ci sono le impronte di un lavoratore sfruttato e malpagato che, chino sui campi, ha sfidato per molte ore il sole implacabile per poi tornare, alla sera, sfatto dalla fatica, in un tugurio malsano.
Immagino che i pomodori se li mangi anche il ministro italiano dell’Agricoltura, che di frutta e ortaggi, e di come questi prodotti arrivano sui banchi dei supermercati, dovrebbe essere esperto.
Sarebbe bello se si dedicasse a trovare una soluzione per la vergogna delle filiere neoliberiste che fanno arrivare frutta e verdura sulle tavole degli italiani a prezzo di molte sofferenze; avrebbe tutta la mia stima se si impegnasse a lottare contro la vergogna delle nuove schiavitù in agricoltura; l’avrei in simpatia se anche solo prendesse atto del problema e andasse a visitare le pericolose baraccopoli popolate dai lavoratori stagionali.
Sembra però che il ministro non abbia tempo né voglia di occuparsi di queste persone, forse perché non fanno parte di quello che egli ha definito “il nostro gruppo etno-linguistico”. La testa del ministro è dunque in tutt’altre faccende affaccendata, egli è preoccupato dalla denatalità e spaventato dal pericolo della “sostituzione etnica”, il malefico complotto attraverso con cui menti maligne della finanza internazionale vorrebbero sostituire i “veri” italiani con i migranti. Un piano che il governo chiede di combattere con la virile arma in resta, dando cioè più figli alla patria. Un po’ come nel ventennio, quando i figli li chiedeva il fascismo, per poi farne carne da cannone.
Parlando degli italiani come di un gruppo “etno-linguistico” da salvaguardare il ministro si è avventurato in un campo minato.
Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa di quel giovane amico che, recentemente, ha sposato una coetanea filippina. I loro figli saranno sufficientemente italiani a suo giudizio? Forse preferirebbe evitare che il seme italico fecondasse grembi asiatici, dando luogo a genìe sospette. Dall’immaginaria difesa del gruppo etnico al far rivivere le disgraziate idee che portarono il fascismo, nel 1938, a varare le leggi razziali, il passo potrebbe essere insospettabilmente breve.
Sarebbe compito dei media di affrontare questi argomenti in modo serio e scientifico, stando attenti a non seminare odio.
La rivista Panorama, invece, ha scelto di fare da grancassa agli spropositi agro-ministeriali, con il titolo di copertina apocalittico “Un’Italia senza italiani”, corredato da una cartina dell’Italia ricoperta di volti “stranieri”, come se la Penisola fosse ormai popolata solo da migranti africani, donne velate e imam musulmani; il tutto accompagnato da un commento indecente: “Al di là delle polemiche sulla sostituzione etnica vince la realtà. Ecco la mappa di un Paese in cui l’immigrazione disordinata o clandestina ha stappato il tessuto sociale”.
Propaganda surreale, che si scontra con la realtà illustrata nelle rigorose statistiche, pubblicate annualmente dalla Caritas, che mostrano l’assoluta prevalenza di cittadini europei di religione cristiana fra gli stranieri residenti in Italia, mentre la componente islamica rappresenta solo il 30% dei migranti, appena un milione e mezzo di individui, cittadini di vari paesi, in prevalenza ben integrati.
Se il tessuto sociale è stato strappato in Italia la responsabilità non è certo loro, ma delle politiche neoliberiste, implementate da governi di ogni tendenza, che hanno precarizzato il lavoro, tanto da spingere molti a partire, stranieri e italiani.
Se poi sia una strategia vincente dare figli alla patria e cacciare i migranti per proteggere il gruppo linguistico, lo giudichi il lettore applicando un po’ di buon senso: qualcuno conosce forse una sola parola d’arabo, macedone, albanese, rumeno, ucraino, bengalese o di una qualsiasi delle lingue africane parlate dai migranti che vivono in Italia, che sia entrata nel dizionario o che gli italiani si siano anche solo dati la pena di imparare?
Sono i migranti a imparare l’italiano, spesso anche davvero bene e ben altre sono le parole che colonizzano la lingua di Dante: quelle dei dominatori imperiali, che non abitano la Penisola ma diffondono il verbo e non credo che il ministro sarebbe capace di impedire agli italiani di infarcire i propri discorsi di inglesismi.
Dubito che con le sue politiche ideologiche il potere riuscirà a convincere gli italiani a procreare di più, ma il declino demografico della Penisola è contrastato proprio dai migranti.
Sarebbe dunque il caso di incoraggiarli a restare in Italia, per ridare fiato a un Paese che sta inesorabilmente invecchiando. In una terra che, nel corso dei millenni, ha conosciuto migrazioni e invasioni di ogni genere, dove le culture e le lingue locali hanno influenze arabe, normanne, provenzali e quant’altro, ha davvero importanza se gli italiani del futuro avranno nomi nuovi e altre sfumature di colore?
Per fortuna ci ha pensato il Presidente a rimettere le cose in chiaro, ricordando che, com’è scritto nella Dichiarazione universale dei diritti umani e incastonato nell’art. 3 della Costituzione repubblicana, è la persona umana e non il gruppo, la razza o l’etnia ad essere portatrice di diritti.
Il ministro dell’Agricoltura che, insediandosi, ha giurato fedeltà alla Costituzione, farebbe bene ad ascoltare il Presidente e, invece di preoccuparsi della fertilità degli italiani, dovrebbe dedicarsi a quella dei suoli e pensare alle persone dimenticate da tutti, sfruttate e schiavizzate, che risiedono anche loro in Italia, a cui dovrebbe essere riconosciuta la stessa dignità di tutti gli altri cittadini e che invece vivono come ombre in ghetti allucinanti. Grazie a loro i pomodori arrivano sulle nostre tavole, ma hanno il sapore amaro dell’ingiustizia.