Per sei anni interminabili avevo vissuto in quel palazzone alle porte di Harlem, il quartiere afroamericano di New York, eppure non c’era nessuno da salutare. Ho attraversato quartieri pieni di nuova disperazione, dopo che il contagio aveva sparso sulla città morte e disoccupazione e quel viaggio verso l’aeroporto mi sembrò immagine e simbolo dell’America pericolosa e triste dalla quale fuggivo.

Pochi giorni dopo, per le strade di Manhattan, si festeggiava: caroselli di auto strombazzanti e gente allegra che ballava sui marciapiedi per festeggiare la vittoria di Biden. Il vecchio Joe, fino a poche settimane prima considerato candidato improponibile, era diventato l’eroe del momento; gli amici mi chiamavano ed è stato bello assistere in diretta, attraverso i loro cellulari, a quella gioia popolare. Io però non vedevo chiaro nel futuro e non trovavo che ci fosse troppo da festeggiare: per sconfiggere Donald Trump era stato necessario ricorrere a una coppia di candidati modesti e conservatori.

La vittoria, favorita dalla paura di un secondo mandato al Tycoon, che aveva spinto molti a impegnarsi freneticamente per convincere gli indecisi a votare per Biden, era stata di misura e aveva evidenziato quanto il Paese fosse profondamente diviso. Provai a mettere gli amici sul chi vive, provai a dire che era bello festeggiare ma anche quanto fosse urgente riflettere sul fatto che settantacinque milioni di americani, nonostante tutto quello che era avvenuto in quattro anni di presidenza Trump, avevano confermato la propria fiducia al presidente razzista, maschilista e bugiardo che li aveva governati. Non avevano voglia di ascoltarmi, volevano godersi quel momento senza amarezze e risposero al mio pessimismo affermando di aver dimostrato che la democrazia americana era indistruttibile.

Poche settimane dopo abbiamo assistito attoniti all’assalto del Campidoglio da parte di una folla armata e feroce e, se da una parte il sistema giudiziario non è mai riuscito davvero a venire a capo di quel tentativo di colpo di Stato, dall’altra quei fatti gravissimi, per molti americani, sono entrati nella mitologia nazionale, come evento fondativo: non un tentativo di golpe, ma l’inizio della battaglia per rifondare l’America. Una chiara dimostrazione di quanto l’ottimismo dei miei amici fosse privo di fondamento. Ma anche loro sembravano aver chiuso gli occhi alla ragione, preferendo cullarsi nella rassicurante certezza che tutto sarebbe andato bene.

“Speriamo che sia femmina”, titolava un quotidiano italiano nella notte delle elezioni, augurandosi la vittoria di Kamala Harris. Invece è maschio ed è ancora lui, ma invecchiato, incattivito, più erratico e pericoloso e sempre prepotente, razzista, fascistoide, machista, volgare. Dovrebbe essere dietro le sbarre, per aver istigato alla sovversione delle istituzioni; invece, tornerà a Washington a far impazzire il personale della Casa Bianca, col suo carattere tempestoso e il suo disprezzo per i sottoposti.

Adesso gli amici di New York mi danno ragione: sanno di non aver riflettuto abbastanza sull’enorme sostegno popolare che Donald Trump aveva raccolto già alle scorse elezioni e riconoscono che in questi anni hanno trascurato l’impegno sociale e non si sono accorti che il culto cresceva, che il Tycoon covava il suo rancore e la gente lo acclamava, non per la sua agenda politica ma grazie ai suoi richiami patriottici e alle sue grida d’odio, cullati nell’illusione di poter ricostruire quel mito americano dentro cui tanti, che nessuno più ascoltava, volentieri si ritrovano, nella speranza di tornare a un passato in cui tutto sembrava funzionare. Ai loro occhi Trump è un predestinato, un messia chiamato a risollevare le sorti dell’America umiliata e tutti coloro che non condividono questo sogno sono traditori della patria. La rete è tesa, la vendetta imminente.

Nei giorni precedenti le elezioni presidenziali si sono moltiplicate, in Europa, le analisi che mettono in luce il sostegno che Trump riceve dai movimenti religiosi più conservatori, quelli che puntano a rifondare gli Stati Uniti come nazione cristiana ispirata al puritanesimo e sostengono che lui è un leader prescelto da Dio, accostandolo a figure bibliche, come Davide o Ciro. Organizzazioni che propongono una mistura di fondamentalismo religioso, suprematismo bianco e fascismo, che non trova più espressione solo ai margini, se è vero che certe idee sono ormai installate anche fra i giudici togati della Corte Suprema e che il presidente della Camera, Mike Johnson, terza carica dello Stato, è noto per l’organizzazione di sedute di purificazione con i colleghi parlamentare per “scacciare i demoni”.

Potremmo anche dire che in fondo sono affari loro, ma, in realtà, quel che accade negli Stati Uniti ci riguarda tutti. Sarebbe sufficiente ricordare le oltre settecento basi militari sparse per il mondo o le tante testate nucleari, sufficienti a distruggere la terra molte volte, con la famosa valigetta atomica nelle mani di un folle. Gli Stati Uniti controllano interi sistemi economici e, pur essendo il secondo Paese più inquinante del globo, hanno eletto un presidente negazionista in materia di crisi climatica.

Ma non è solo questo. In realtà fa anche pena vedere le scuole della Florida svuotare le proprie biblioteche per ubbidire alle leggi folli che mettono al bando libri. Fa male sentire di donne che tornano a morire di aborto clandestino o per l’inerzia di medici frenati da leggi senza senso. Fa rabbia sapere che il giorno dopo la vittoria di Trump, con un’azione concertata e preoccupante, decine di migliaia di giovani afroamericani hanno ricevuto messaggi minacciosi e razzisti sui propri cellulari, scoprendo così di essere già schedati e spiati. Fa tristezza vedere una grande democrazia così malridotta, sapendo che saranno i deboli, le minoranze, i poveri, a pagarne le conseguenze, magari gli stessi che hanno votato Trump.

Ora gli amici sembrano aver capito che non si può più stare alla finestra a guardare, che bisogna uscire, darsi da fare, parlare con la gente, organizzarsi, costruire nuovi rapporti. Lo ha detto anche il vecchio Bernie Sanders e, forse, stavolta gli daranno ascolto.