Non è la campagna elettorale di Donald Trump; sono le parole che mi rivolge, commentando le notizie, il carabiniere a guardia dell’ingresso di un ufficio pubblico, uno di quei luoghi caotici dove ogni giorno ne arrivano tanti, per chiedere informazioni, presentare domande e ottenere documenti, cercando di districarsi nella complicata burocrazia tricolore. 

Alcuni sono stranieri per davvero; altri sono, in realtà, italiani di varia origine: gente arrivata da molti anni dal Maghreb, dai Balcani, dai Paesi dell’ex impero sovietico, dalla Jugoslavia frantumata, dall’Asia e dall’Africa. Persone che, a un certo punto, dopo aver lavorato duramente, messo su famiglia e mandato i figli a scuola, hanno superato anche le insidie di un faticoso percorso di cittadinanza e sono diventati italiani a tutti gli effetti. Alcuni parlano la lingua con accenti nuovi, incespicando sulla grammatica, altri hanno la calata tipica del posto, perché ci sono cresciuti. Sono tasselli del composito mosaico dell’Italia odierna.

Non ho voglia di controbattere, sorrido all’appuntato e resto quieto. Ha le sue paure, ma vedo che è gentile con tutti e aiuta come può, quasi più usciere che forza dell’ordine e mi pare che sia questo l’essenziale. Nella vita conta come ti comporti e spesso l’abito non fa il monaco. Ma nella sua testa si sono insinuate idee seminate ad arte da politicanti mascalzoni, amplificate da complottisti di professione: l’invasione programmata, la sostituzione etnica, le nostre antiche tradizioni minacciate dallo straniero. Accade spesso che chi ha paura dei cambiamenti finisca per appellarsi alle regole, come se potessero davvero disegnare la storia, fermare le ondate migratorie provocate dai cambiamenti climatici, dai conflitti, dalla povertà.

Se avessi voglia di rispondere direi che, secondo me, il problema sono proprio le regole: regole che decidono chi ha diritto di viaggiare e chi no, regole che impediscono ai migranti di raggiungere l’Europa, il Nord America e l’Australia attraverso vie normali, regole che spingono la gente fra le braccia dei trafficanti, regole che provocano tragedie in mare e ai valichi di frontiera, regole che marchiano a fuoco, che ingabbiano gli esseri umani in categorie definite a tavolino, cosicché non sono più donne, uomini e bambini ma “migranti economici”, “richiedenti asilo”, “rifugiati”, “clandestini”, “dublinanti”, “sans papier”, “illegali”, “extracomunitari”, addirittura “alieni”.  Per tutta questa gente le regole prevedono barriere, restrizioni, limitazioni, muri e anche prigioni, che però non si chiamano carceri ma hanno nomi di fantasia, come centri di identificazione, detenzione, espulsione; luoghi a loro volta governati da regole che impongono umiliazioni, vessazioni e deportazioni. Le regole crescono sempre e per farle rispettare i governi di ogni colore si spingono fino a firmare accordi vergognosi con le mafie al governo in certi Paesi dove la vita dei migranti che transitano vale poco ed è sempre in bilico e in pericolo.

Le regole mandano in galera come scafisti ragazzi costretti dai trafficanti a pilotare imbarcazioni di fortuna. Provocano dolore e morte e costringono chi sopravvive alla clandestinità.
Con le regole si ostacola e criminalizza chi fa solidarietà: chi soccorre i migranti in mare, chi si prende cura di quelli che arrivano stremati via terra, chi fornisce rifugio ai clandestini in Australia, chi offre acqua alle persone in cammino nei deserti al confine fra Messico e Texas. Tutta gente che accetta anche il rischio della persecuzione giudiziaria pur di non rinunciare all’umanità che ci accomuna con tutti, compresi i viaggiatori senza documenti e senza permessi, che violano regole scritte contro di loro, pur di cambiare il proprio destino.

Per questo il giorno in cui il Tribunale di Trapani ha chiuso la vicenda giudiziaria della nave tedesca Juventa, assolvendo tutti gli imputati, le prime parole di Katrin Schmidt, l’ultima comandante della nave, non sono state per se stessa. Pur avendo vissuto per anni l’incubo di poter subire una condanna durissima per aver guidato le azioni di soccorso in mare, lei, anzitutto, ha voluto ricordare i migranti morti nel Mediterraneo, inclusi tutti quelli che le è stato impedito di soccorrere mentre la sua nave arrugginiva nel porto siciliano. La Schmidt ha voluto denunciare il fatto che ogni azione, ogni decisione dei governi, ha come obiettivo di bloccare e condannare all’invisibilità e all’illegalità, le persone in movimento. “Molti hanno ascoltato la mia storia e poi l’hanno raccontata – ha detto Schmidt –, ma pochissimi sentono le storie che contano davvero, le storie dei migranti. I problemi peggiori non li vivono i soccorritori: io, in questi anni, non ho fatto nemmeno un giorno di prigione, ma ci sono migliaia di persone già in prigione solo per aver attraversato le frontiere. Le vere vittime sono le persone in movimento, sempre descritte come pericolose e criminali per giustificare le violazioni dei loro diritti umani”.

Quasi nessuno, infatti, ascolta le voci di queste persone o ne conosce le storie; ben pochi sono interessati al punto di vista di chi parte. Una bella eccezione è il film di Matteo Garrone, Io capitano, in cui il progetto migratorio è raccontato dal punto di vista di chi si mette in movimento: due giovanissimi cugini senegalesi, che inseguono il sogno di approdare in Europa e intraprendono il viaggio, pericoloso, pieno di insidie, dolori e tragedie, che dal loro Paese, attraverso il Mali e il Niger, li porterà in Libia, dalle cui spiagge finiranno per imbarcarsi per la Sicilia. Bella la scelta di un cast completamente africano: nel film non ci sono europei, né buoni né cattivi e la sponda nord del Mediterraneo si intravede appena. 

È una storia di gente in viaggio e delle loro legittime aspirazioni, la storia di quali pericoli, insidie e crudeltà sia pronto a subire chi si mette in cammino. È un film che ci insegna o ci ricorda che tutti dovrebbero avere il diritto di poter fare quello che gli italiani hanno fatto per gran parte della loro storia: partire, andare a cercare fortuna altrove. Dovrebbero poterlo fare con dignità, senza regole che li costringono alla clandestinità.
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