Quel giorno cominciò la liberazione dei pochi rimasti ancora in vita nei campi di sterminio (e molti, ormai troppo deboli e malati, sarebbero comunque morti nei giorni successivi) e vennero a galla orrori di tale vastità che i giovani soldati sovietici, increduli, ne rimasero sconcertati e smarriti, sebbene di orrori, in quella guerra, ne avessero visti già tanti.
Quella data è divenuta il simbolo di una delle più grandi tragedie della storia; per questo, ogni anno, abbiamo il dovere di ricordare, nel Giorno della Memoria, milioni di innocenti ebrei deportati da tutta Europa e sterminati nei lager, per il semplice fatto di essere ebrei. Una barbarie nazifascista che ha avuto tante complicità in tutto il continente, in omaggio all’odio antisemita coltivato e propagandato per secoli.
A Roma il rastrellamento del ghetto avvenne, con la complicità dei funzionari della Repubblica di Salò, il 16 ottobre 1943: una data che gli ebrei romani non potranno mai dimenticare, perché furono ingannati e traditi e di tanti che furono razziati solo 16 fecero ritorno e, fra questi, una sola donna.
Proprio nel cuore del ghetto romano, nella medievale Casina de’ Vallati, a pochi passi dall’antico Portico d’Ottavia, lo storico Marcello Pezzetti, uno dei più importanti studiosi italiani della Shoah, ha allestito in questi mesi la mostra intitolata: La fine dei lager nazisti, dedicata, appunto, ai mesi cruciali in cui venne a galla la realtà dei lager.
In un giorno bollente di giugno, vagando per le strade ricche di storia di quel quartiere, mi sono trovato a varcare la soglia di quel palazzotto e sono stato catapultato in quel terribile passato. È stato un viaggio doloroso e necessario, che tutti dovrebbero intraprendere: leggere le cifre incontrovertibili della follia, conoscere i piani diabolici che furono messi in atto con assoluta lucidità, cercare di capire come anche gli ingegneri si siano dati da fare per razionalizzare le tecniche dello sterminio, ascoltare le sobrie testimonianze dei sopravvissuti. Conoscere, ricordare, riflettere, pieni di dolore e di vergogna: tutti dovrebbero ritrovarsi almeno una volta immersi in quella storia, che non deve assolutamente essere dimenticata.
Per chi ha il coraggio di andare fino in fondo, c’è una stanza buia, la cui soglia si deve varcare con timore e nella quale si deve entrare come si farebbe in un sacrario, in un tempio o in un memoriale: silenziosamente, in punta di piedi, con rispetto e umiltà. In quella stanza viene proiettato l’orrore divenuto normalità, vi si rappresenta la banalità del male, su cui tanto ha riflettuto la filosofa ebrea Hannah Arendt. Su quello schermo scorrono, infatti, le immagini girate nei giorni successivi alla liberazione dei lager e scorrono davanti agli occhi i sopravvissuti ridotti a larve umane e le montagne di cadaveri di donne e uomini quasi irriconoscibili nella loro umanità, ammucchiati, gettati in fosse comuni uno ad uno oppure spinti dentro a decine con i bulldozer; montagne di ossa, teschi e denti tenuti assieme da brandelli di pelle.
Ciò che gli alleati avevano trovato nei campi di sterminio era talmente incredibile che sentirono la necessità di filmare subito tutto, perché era una realtà che le parole non bastavano a descrivere e per la paura che qualcuno potesse, in futuro, dubitare della loro testimonianza. Quei filmati sono stati girati per noi, che dopo 80 anni possiamo ancora vedere l’orrore assunto a sistema. Sono per i nostri figli e per le future generazioni. Sono necessari per non dimenticare e perché ancora oggi c’è chi nega che tutto questo sia davvero avvenuto, come se milioni di ebrei scomparsi in quegli anni dalle anagrafi europee fossero stati inghiottiti nel nulla.
Lo scorso 27 gennaio, purtroppo, molti in Europa hanno contestato la possibilità di celebrare ancora nel Giorno della Memoria, a causa dei fatti terribili che stanno accadendo a Gaza, in Cisgiordania e in tutto il Medio Oriente.
La persecuzione dei palestinesi da parte di Israele ha spinto alcuni a contestare il ricordo della Shoah, mettendo in dubbio la legittimità di quella manifestazione, come se i morti dei lager avessero una qualche responsabilità per quello che sta facendo oggi il governo israeliano; come se fosse indispensabile un parallelo tra il genocidio degli ebrei perpetrato dal nazifascismo e lo sterminio dei palestinesi operato da Israele.
Ma cosa c’entrano i sei milioni di ebrei innocenti uccisi dai nazifascisti con i gravi atti compiuti oggi dal governo e dall’esercito israeliano? Nulla. Israele nemmeno esisteva quando quella gente finiva nelle camere a gas.
Ho vissuto con dolore le polemiche scaturite nel Giorno della Memoria, i tentativi disgustosi di distinguo e quelli ignobili di affiancare gli avvenimenti di ieri a quelli di oggi, quasi a voler dimostrare che, siccome Israele commette crimini esecrabili, questi in qualche modo rendono meno importanti quelli commessi in passato nei confronti degli ebrei.
È certamente necessario lottare per fermare i massacri indiscriminati a Gaza e le violenze in Cisgiordania; non si deve cessare di denunciare la violenza immane che subiscono i palestinesi da un esercito che non distingue tra terroristi e innocenti. Dobbiamo continuare a combattere le atrocità e i piani di pulizia etnica. Ma in tutto questo non dobbiamo trascinare le vittime dell’Olocausto.
Guardiamo ai coraggiosi ebrei americani che sono in prima fila nelle proteste e a quei cittadini israeliani, ebrei ed arabi, che non si lasciano condizionare dall’incessante propaganda governativa e non si arrendono: è al loro fianco che dobbiamo marciare. Ma è indispensabile anche continuare a ricordare le vittime di un progetto genocidario folle che non ha uguali nella storia, perché gli ebrei assassinati nei lager erano gente come noi: italiani, greci, ungheresi, tedeschi, polacchi, russi, ucraini, uccisi senza colpa. Tantomeno ad essi possono essere addossate le colpe di chi, oggi, perseguita i palestinesi.
Chi non è convinto vada a vedere la mostra al Portico d’Ottavia e abbia il coraggio di entrare nell’oscurità di quella stanza, dove scorrono le crude immagini dell’orrore.
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