“In qualche caso hanno costruito le dighe senza chiederci il permesso, ci hanno cacciati dai nostri paesini e li hanno sommersi. Insomma, siamo stati perseguitati e discriminati”.

Non sono sicuro che Marta sia il vero nome: da tempo ha lasciato l’Alto Adige per lavorare fra Milano e Parigi nel campo della moda e del lusso, forse un nome poco italiano, che avesse denunciato le sue origini, avrebbe potuto danneggiarle la carriera. La pronuncia è perfetta ma a casa sua, quando era bambina, negli anni Sessanta, si parlavano le lingue di famiglia: tedesco e ladino. L’italiano era la lingua degli invasori, della burocrazia, imposta dai fascisti, quindi, giustamente, odiata.

Gli occhi chiari di Paolo e quelli scuri di Cecilia mi hanno invece guidato nella visita di Bolzano, fra i portici del centro e fino al Duomo. Sono vecchi amici di quando, giovanissimo, vivevo da quelle parti: lei figlia di gente arrivata dal sud negli anni Trenta, per “italianizzare” l’Alto Adige, lui un “mezzosangue”, col padre di lingua tedesca e la madre italiana. Hanno trascorso la vita laggiù, amando intensamente la loro terra, ma vivendo a disagio in un luogo di benestanti dove vige una sorta di sistema di separazione che ti costringe a indicare a quale gruppo etnolinguistico appartieni e a specificare in quale lingua si svolgono le tue attività, se vuoi accedere a contributi pubblici. Un luogo dove si vive agli uni accanto agli altri, ignorandosi reciprocamente.

Quarant’anni fa da quelle parti avevo conosciuto Alexander Langer, impegnato già allora nel campo dei diritti umani e della solidarietà, destinato a diventare uno dei più importanti e innovativi pensatori ecopacifisti europei. Come altoatesino germanofono era stato il primo politico a contestare quello che lui definiva “etnonazionalismo”, rifiutandosi di dichiarare la sua appartenenza a uno specifico gruppo linguistico, come richiesto dalla legge. Sono passati trent’anni dalla sua tragica morte, il suo pensiero è più attuale che mai e la legge che chiedeva di abolire ancora regola le relazioni fra i popoli di quella zona.

A Bolzano c’è la statua del poeta Walther Von Der Vogelweide, con il liuto fra le mani. Conosciuto semplicemente come Walther e venerato come poeta nazionale, è vissuto a cavallo fra il XII e il XIII secolo e della sua biografia si ignora quasi tutto, ma i suoi versi ancora incantano gli autoctoni. Nel resto d’Italia nessuno lo conosce.

Mi fa notare Paolo che la statua di Walther guarda verso Trento. Per la precisione, lo sguardo del poeta è rivolto verso una piazza, sessanta chilometri più a sud, dove, ritto su un piedistallo, anche Dante declama versi. La statua dell’autore della Divina commedia fu realizzata nel 1896 da uno scultore fiorentino, per simboleggiare l’italianità, quando la città era ancora governata dagli austriaci. La scelta di mettere il poeta altoatesino a sfidare quello toscano non è stata casuale: i due poeti si guardano in cagnesco e sono così il simbolo di odi antichi e recenti malumori che ancora non trovano soluzione.

Quella storia non l’ho imparata a scuola e nemmeno quando ho vissuto da quelle parti l’ho capita, colpevole e vittima di pregiudizi reciproci. È una storia che studio e cerco di capire solo adesso, che sono quasi vecchio e abito altrove e di questo un po’ mi vergogno. Mi viene in mente “Why Weren’t We Told?”, libro dello storico australiano Henry Reynolds, che ha ricostruito la storia dell’incontro fra nazioni indigene e invasori inglesi e anch’io, oggi, mi chiedo come mai nessuno ci ha raccontato la storia di quei posti. Perché non l’abbiamo studiata a scuola? Gli altoatesini (o sudtirolesi) non erano italiani. Il fascismo impose l’italianizzazione, facendo arrivare migliaia di lavoratori dal sud e vietando agli autoctoni di parlare la loro lingua. Il regime fece accordi con i nazisti cercando di convincere la popolazione di lingua tedesca ad andarsene nel Reich, cambiò la toponomastica e persino i cognomi, inviò milizie e carabinieri a reprimere chi resisteva, organizzando magari scuole clandestine per continuare a insegnare il tedesco ai figli. Per questo dopo la fine della guerra ci siamo ritrovati uno strascico di odio e violenza e ci sono voluti molti anni per trovare una soluzione che risultasse in un’accettabile convivenza.

Ma anche se, per fortuna, da molto tempo non esplodono più le bombe, separazione e astio restano e i due poeti si guardano ancora in cagnesco. Sarebbe allora un dovere degli italiani studiare e capire meglio quella storia, prima di giudicare la gente del posto. Gli strumenti per informarsi oggi non mancano.[1]

Fortunatamente, non mancano nemmeno le buone idee. Nel 2013 i rappresentanti di decine di cantoni, province autonome, gruppi etnici e linguistici hanno fondato la “Macroregione alpina”, con l’intento di sviluppare programmi comuni per difendere, sviluppare e connettere le Alpi. Sono gruppi umani che parlano svariate lingue e sono separati dai confini nazionali di ben sette diversi stati, ma hanno tutti in comune la stessa cultura della montagna e la volontà di prendersene cura. Popoli e culture che, a causa della storia e della politica, si detestano o si ignorano, scoprono così di avere molte cose in comune e progetti a cui lavorare assieme.

E, se nei piccoli centri prevale ancora la diffidenza, a Bolzano e nelle altre cittadine dell’Alto Adige i muri fra i giovani stanno cominciando a incrinarsi: sembra infatti che ragazzi e ragazze stiano trovando un terreno di incontro nell’utilizzo dell’inglese come lingua franca. Anche questa è una bella idea, rivoluzionaria e creativa. I patrioti storceranno la bocca, Walther e Dante continueranno a guardarsi storto, ma io dico che è meglio parlarsi in inglese che continuare a ignorarsi.