Fra due settimane si vedranno in occasione del G7 in Canada. Il primo ministro Anthony Albanese non ha fretta e sicuramente nessuna intenzione di partecipare a qualche ‘show’ di cattivo gusto alla Casa Bianca. Incontrerà Donald Trump nel corso del vertice internazionale e sicuramente parlerà di dazi dopo l’annuncio del presidente Usa di venerdì, dalla Pennsylvania, di raddoppiare dal 4 giugno le imposte sull’import di acciaio e alluminio, dal 25 al 50%.

L’obiettivo è ovviamente quello di creare una recinzione, attorno all’America, così alta da essere insuperabile per i metalli provenienti dall’estero. E anche se l’Australia esporta solo lo 0,6% della sua produzione d’acciaio negli Stati Uniti, in palio ci sono svariate centinaia di milioni di dollari l’anno. Albanese incontrerà Trump e spiegherà le ragione per cui ‘fra Paesi amici non ci si comporta così’, ma naturalmente nessuno si aspetta né un trattamento di favore né qualche tipo di ripensamento da parte dell’inquilino della Casa Bianca. 

Che potrebbe arrivare solo se imposto da circostanze interne (proteste, costituzionalità, ecc.) e ulteriori danni che gli astronomici dazi potrebbero arrecare all’economia statunitense.

E’ la nuova realtà con cui il mondo deve convivere, con tutte le conseguenze e l’imprevidibilità che essa comporta: quindi anche per Albanese più dovere che vere speranze di far cambiare idea al presidente che non si ferma un minuto in fatto di annunci, ripensamenti, nuovi annunci, promesse che spesso, comunque, non vengono nemmeno interamente mantenute. 

Per il governo australiano, come per tutti i governi del mondo occidentale, un’enorme handicap progettuale in più, con nuove spinte inflazionistiche sempre dietro l’angolo e piani di crescita resi ancora più complicati da improvvise varianti che cambiano tutto.
Tempi difficili per chi ha appena ottenuto una maggioranza (anche per l’effetto Trump) che fa riscrivere parte della storia politica del Paese e, soprattutto, che ha tolto all’opposizione qualsiasi tipo di serenità. Sconvolti dalla pesantissima sconfitta, i liberali e i nazionali hanno vissuto una decina di giorni in totale confusione: le minacce di divorzio si sono troppo velocemente materializzate prima di un quasi ovvio ripensamento; alcuni giorni di riflessione, qualche contrattazione e il rientro (per modo di dire) della crisi che ha permesso la presentazione di un governo ombra che ha aperto la porta a nuove aree di incertezza, confusione e attriti. 

La nuova leader liberale, Sussan Ley,  ha varato uno squadra che ha fatto, da subito, discutere più per alcune esclusioni e ridimensionamenti di ruoli che per i ‘premi’ distribuiti dopo il duello interno per la leadership. Un po’ la stessa storia nella fila dei nazionali, con la ‘scusa’ del ringiovanimento dei ranghi che ha portato sui banchi dell’anonimato i due ex leader del partito, Barnaby Joyce e Michael McCormack. Entrambi, con il loro diverso stile, hanno apertamente ridicolizzato la questione del ricambio generazionale sostenuta da David Littleproud, dato che alcuni dei ‘promossi’ hanno più anni di loro e hanno più concretamente parlato di scelte puramente politiche. Ha invece preferito restare a guardare l’ex ministro (e sfidante sconfitto per la leadership) Matt Canavan che ha semplicemente detto di non voler essere della partita fino a quando l’opposizione rimarrà vincolata al traguardo delle emissioni zero entro il 2050. Nazionali quindi più ‘deboli’, almeno come esperienza e visibilità, rispetto a un mese fa e liberali che mostrano gravi segnali di incoerenza.

Per una squadra che ha ammesso, già dopo la sconfitta del 2022, di avere ‘problemi’ sia con l’elettorato che con la sua rappresentanza al femminile, ha stupito un po’ il fatto che non abbiano ottenuto incarichi nel governo ombra tre deputate di primo piano nella precedente legislatura come Claire Chandler, Sarah Henderson e Jane Hume e che sia stata depotenziata l’ex ministro ombra per gli Affari aborigeni, Jacinta Nampijinpa Price, con il nuovo incarico di portavoce per i Servizi per la Difesa. Qualche perplessità, data la questione ‘esperienza e qualità’, anche per avere affidato a Dave Sharma solo un ruolo, non certo di primissimo piano, come quello di ministro (ombra) assistente per la Concorrenza e il Tesoro. 

Scelte perlomeno strane e non spiegate, che si traducono in una partenza sottotono con più ombre che luci. Ley comunque giura di avere capito e, soprattutto, di essere perfettamente al corrente, e non da adesso, che la questione del voto femminile è un problema da affrontare e in fretta: le donne, che tra gli anni 50 e 80 del secolo scorso, erano un punto di forza della Coalizione, dagli anni 90 hanno cominciato a disertare il partito fino a diventare, negli ultimi anni, una vera e propria garanzia per laburisti, verdi e un numero crescente di indipendenti ‘progressisti’. “I liberali lo sanno da tempo”, ha assicurato la nuova leader del partito che però non ha spiegato perché allora la Coalizione si è presentata alle ultime elezioni senza alcun programma proprio per le donne.

E, per rimanere sul tema, Albanese, che in queste settimane post-voto non si è di certo lasciato andare in toni trionfalistici nonostante il clamoroso successo, non ha resistito a fare un’osservazione a voce alta sulla nuova squadra liberale. Da Brisbane, attorniato da quelle che ha definito le “magnifiche sette”, le  nuove elette nello Stato generalmente più difficile per i laburisti (il Queensland), il primo ministo ha detto: “Ci sono più donne il cui nome comincia con la ‘A’ nell’esecutivo laburista della Camera dei deputati (10) che donne nell’intera squadra della Coalizione (9)”.  Aggiungendo poi che, mentre la formazione di governo ha ora più donne che uomini, la squadra d’alternativa annunciata da Ley ne ha addirittura meno di quelle che aveva Peter Dutton.

Profonde divisioni con i nazionali, non tanto nascoste delusioni e dichiarazioni pubbliche di disappunto dei ‘lasciati fuori’, senza precise spiegazioni - che danno l’impressione di ‘debiti’ da pagare per averla spuntata su  Angus Taylor -, immediati tormenti, ancora una volta pubblici, sul da farsi per ciò che riguarda le politiche energetiche e, soprattutto, quel traguardo delle emissioni zero del 2050 che all’interno della Coalizione non va proprio giù. Un malessere che presenta da subito grossi rischi e non permette di partire con la possibilità di mettere in luce - sempre nel delicato, attualissimo e perennemente controverso tema della decarbonizzazione -, la discutibile prima decisione ufficiale del nuovo governo di confermare l’espansione delle operazioni di estrazione di gas (progetto North West Shelf) nel Western Australia fino al 2070. Un via libera che offre garanzie per gli investimenti nel settore, lavori, export e riserve per sostenere la transizione delle rinnovabili, ma che ha come rovescio della medaglia più alti livelli di inquinamento e nuove difficoltà per ciò che riguarda gli impegni di riduzione delle emissioni per il 2030 e quelle, ancora da finalizzare, per i 2035, come confermato ieri dal ministro dell’Energia Chris Bowen. I verdi hanno accusato i laburisti di vero e proprio ‘tradimento’ per ciò che riguarda gli obiettivi di contenimento delle emissioni e riduzione dell’uso di combustibili fossili e di una presa in giro degli elettori, rimandando una decisione che avevano già preso al dopo elezioni. 

Sicuramente un opportunismo strategico perché quasi certamente l’annuncio fatto la settimana scorsa dal nuovo ministro dell’Ambiente Murray Watt, se fosse stato fatto durante la campagna elettorale, sarebbe costato ai laburisti qualche seggio e ne avrebbero beneficiato verdi e indipendenti. Una scelta di tempo studiata a tavolino a dimostrazione di una ‘macchina elettorale’ ben costruita che non ha lasciato davvero nulla al caso.