Ci si chiede, talvolta, quale memoria abbiano trascinato con sé i prigionieri di guerra al loro ritorno in patria e, di pari dignità, quale eredità abbiano lasciato nei luoghi della loro cattività. Dell’Australia, i prigionieri italiani hanno spesso conservato un lontano e piacevole ricordo, in un’epoca di estremo dolore e di annientamento assoluto dell’essere umano.
Silvio Masullo, originario di Sacco, un piccolo paesino che conta soltanto 450 abitanti, in provincia di Salerno, in Campania, ha deciso di tessere i fili dei cinque anni e mezzo di prigionia di Giuseppe Polito, classe 1914, anch’egli originario della stessa cittadina, arruolato a Bardia nella 15esima batteria di artiglieria del Regio esercito.
“La mia ricerca è stata spinta dall’enorme interesse che nutro verso la storia – ha raccontato Masullo che, nella sua vita professionale, ricopre il ruolo di segretario generale di Comuni e Province e, allo stesso tempo, svolge la professione di giornalista e scrittore –. La vicenda dei prigionieri di guerra non è stata mai approfondita dagli studiosi, eppure si tratta di cittadini disperati, completamente dimenticati, soprattutto dal governo italiano che addirittura continuerà a ignorare anche alla fine del conflitto mondiale. Gli ‘internati’ nei campi tedeschi, persino francesi – De Gaulle aveva dato ordini in proposito –, subirono trattamenti disumani, dalla Russia ritornarono in pochi e senza notizie ufficiali sulla loro sorte. L’umanità degli australiani è dimostrata, oltre che dal numero rilevante dei ritorni dopo il 1950, anche dal fatto che 92 italiani si resero irreperibili al momento di ritornare in patria”.
Lo scorso ottobre, spinto dalla necessità di dare ordine all’esperienza militare del suo concittadino, per dare un senso anche a strane abitudini che certamente non fanno parte del retaggio culturale italiano – “Beveva sempre il tè con le arachidi, facendolo cadere dall’alto con movimenti armoniosi e ritmati, segno evidente di una precedente vita”, ha raccontato Masullo – ha cominciato a raccogliere informazioni fino a imbattersi in una pubblicazione del 2017, Walking in their Boots: Italian Prisoners of War in Queensland 1943-1946, della storica australiana Joanne Tapiolas: “Mi ha donato generosamente un pezzo delle sue ricerche – ha continuato –, un fascicolo completo di 31 pagine sulla vita di Giuseppe Polito, in aggiunta a tre schede personali compilate dagli uffici e dai campi di prigionia. Sono rimasto affascinato, e al tempo stesso emozionato, dalla miriade di informazioni ricevute, complete di foto, documentazione e articoli dettagliati”.
Tra il 1941 e il 1944 furono circa 14mila i prigionieri italiani che giunsero in Australia, impiegati poi nelle aziende agricole e nei progetti di irrigazione governativi; Polito sbarcò al porto di Melbourne il 13 febbraio 1945; era stato imbarcato in India a Bombay, l’odierna Mumbai, sulla nave ‘Generale William Mitchell’, con altri 2.076 connazionali, l’ultimo manipolo di italiani: “È singolare come, a due mesi dalla liberazione dell’Italia, che con l’armistizio dell’8 settembre 1943 era diventata cobelligerante degli Alleati, i prigionieri non venissero ancora rimpatriati – ha continuato Masullo –. La debolezza, la disattenzione del governo italiano e le necessità dell’economia australiana l’avevano fatta da padrone. D’altro canto, cosa ci si poteva attendere da coloro che avevano firmato l’armistizio a Cassibile, ne avevano colpevolmente ritardato la diffusione ed erano scappati a Brindisi, con in testa il capo del governo Badoglio e il re Vittorio Emanuele III? Stesso disimpegno sui prigionieri si era registrato con il primo e secondo governo Bonomi, con Parri e persino con De Gasperi. I governanti italiani, oltre alle evidenti difficoltà nel corso del conflitto mondiale, erano impegnati nella ricostruzione post-bellica e preoccupati che, con l’arrivo dei prigionieri, si ingrossassero le fila dei disoccupati”.

Giuseppe Polito in divisa
Dal 1941 al 1945 Giuseppe, da un campo di prigionia anglo-egiziano, dove gli era stato attribuito il numero identificativo ‘M.E. (Middle East) 125871’, era stato trasferito in India; le prospettive di vita erano precarie ma le condizioni si ribaltarono decisamente una volta arrivati in Australia. Fu identificato come ‘PWIX (prisoner of war Italian pro-fascist) 68172’ e, dal campo di Wembley, fu assegnato con altri 155 compagni a Karrakatta in attività di riconversione di aree e materiali postbellici fino al 25 luglio 1945. L’ultima tappa fu quella più gradita: l’arrivo in una fattoria a Dalwallinu dove ritrovò il contesto ideale per chi, come lui, si era sempre dedicato al lavoro nei campi. Proprio nei documenti redatti dalla storica Tapiolas si legge come avesse sottoscritto “un’occupazione rimunerativa per un periodo di sei mesi a partire dalla data di richiesta”, dichiarando di “compiere qualsiasi lavoro durante il suddetto periodo, sottoponendosi volontariamente alle regole di disciplina e accettando le rate di paga stipulate per soldati semplici prigionieri di guerra per qualsiasi periodo di tempo durante il quale tale lavoro sarà richiesto”.
La guerra era ormai terminata da tre mesi, ma Giuseppe era impegnato nelle sue giornate in campagna, trattato proprio come un componente di famiglia: “Avevano ogni forma di premura nei suoi confronti, come quando gli sostituirono il bacon, da lui non gradito, con un altro salume a sua scelta”, ha raccontato Masullo.
Giuseppe fu imbarcato sulla ‘Chitral’ il 30 settembre 1946, con altri 2797 connazionali e approdò a Napoli il 30 ottobre. Nel frattempo l’Italia, con il referendum del 2 giugno, si era lasciata alle spalle l’esperienza monarchica. In paese, ritrovò non solo il lavoro in campo, ma soprattutto l’amore di sua moglie Amelia, di suo figlio Carmine; due anni dopo nacque anche Antonio. Non accettò mai l’invito della fattoria australiana, dove si era distinto per la sua grande serietà, di emigrare nel continente, ma di quel lontano e spoglio posto ha conservato nel corso di tutta la sua vita un ricordo affettuoso. Anche sua nipote, Rossella Polito, laureata in giurisprudenza e alla direzione del lavoro di Como, ha reagito con emozione di fronte al ritrovamento della documentazione della prigionia del suo amato nonno: “Dopo 74 anni dal suo rientro in Italia, ha colmato un vuoto a livello affettivo e familiare. Quando il nonno era in vita non prestavamo molta attenzione ai suoi racconti, ma mi è rimasto impresso il suo attaccamento per l’Australia, dove era stato trattato con grande umanità e fiducia – ha raccontato –. Sarebbe splendido, anche se non è per niente facile, poter ritrovare i familiari di coloro che gestivano la fattoria dove era stato collocato nell’ultimo periodo della prigionia”.