Un po’ meno revisioni e un po’ di più buon senso: dopotutto le elezioni, con il loro devastante risultato per la Coalizione, si sono tenute solo poco più di un paio di mesi fa. E non servono sicuramente profonde analisi per capire che l’effetto Trump in Australia di positivo non ha assolutamente nulla.
Anzi, al primo segnale di minima vicinanza con le sue idee e i suoi modi di fare, gli australiani si irrigidiscono e prendono le distanze di chi anche vagamente parla di MAGA o di estreme semplificazioni per affrontare temi importanti come guerre, cambiamenti climatici o immigrazione. Eppure i liberali non sembrano avere completamente recepito il messaggio degli elettori o fanno finta di non capire che l’incontro, che ritengono essenziale, tra Albanese e il presidente Usa avverrà solo quando Trump lo vorrà.
Il primo ministro è pronto a partire in qualsiasi momento, ma l’Australia non è una delle priorità del capo della Casa Bianca.
Quindi la leader dell’opposizione Sussan Ley e il ministro ombra del Commercio, Kevin Hogan, possono stare un po’ più tranquilli sul fronte delle accuse e delle critiche di un’Australia in balia dei dazi Usa per un presunta indolenza diplomatica di Albanese, che non è scattato dai blocchi di partenza subito dopo il ritorno di Trump allo Studio Ovale per andare ad omaggiarlo, stabilendo qualche tipo di speciale rapporto personale che avrebbe in qualche modo evitato l’indifferenza della Casa Bianca nei confronti dell’Australia. Una presunta mancata di attenzione nei riguardi di un partner storico che ha avuto e sta avendo, a detta dei liberali, chiare conseguenze pratiche.
La verità è che Trump non fa distinzioni: davanti ai suoi interessi non guarda in faccia assolutamente nessuno. I dazi al 10% (per ora) su tutto riservati all’Australia, gli aumenti extra per acciaio e alluminio e ora quelli ‘minacciati’, assolutamente al di fuori di ogni logica, del 50% sul rame (anche se gli Usa importano solo l’1 per cento della produzione australiana) o del 200% sui prodotti farmaceutici (in questo caso in gioco ci sono più di due miliardi l’anno di export) sono del tutto ‘indipendenti’ dall’avere conosciuto o meno, di persona, Albanese.
Ley, Hogan e colleghi vari lo sanno benissimo, ma la tentazione di guadagnarci qualcosa con un minimo di visibilità extra è irresistibile. Quindi ecco le accuse, non all’erratico Trump, ma ad Albanese di non avere fatto abbastanza per quell’incontro che rimane un vuoto da colmare nei rapporti fra i due Paesi. Accuse che si alzano di tono mettendo a confronto i rapporti con Pechino, ora che il primo ministro ha iniziato la sua seconda missione ufficiale in Cina (che gli permetterà di incontrare per la quarta volta Xi Jinping, le altre due a vertici internazionali) prima di avere avuto l’occasione di stringere per la prima volta la mano a Trump dal suo ritorno, lo scorso gennaio, alla Casa Bianca. Ma il capo di governo non poteva di certo dire no all’opportunità di continuare e rafforzare il dialogo, ripreso dopo un lungo ‘punitivo’ silenzio diplomatico di alcuni anni abbinato a pesanti dazi su alcuni prodotti australiani.
La missione (eccezionalmente lunga) in Cina non può essere vista come una scelta su che leader incontrare prima o dopo, ma un appuntamento già progettato che sarebbe stato impossibile rinviare, specie in questo mondo sempre più diviso, imprevedibile e pericoloso. Nessuna precedenza studiata a tavolino e, sicuramente, massima attenzione da parte del primo ministro di giocare le sue carte in modo tale di non offrire false interpretazioni a nessuno. I rapporti commerciali prioritari con la Cina sono fuori discussione (il giro d’affari che coinvolge i due Paesi è di oltre 312 miliardi di dollari l’anno), l’alleanza prioritaria - dal punto di vista della storia, dei valori condivisi e degli equilibri strategici - con gli Stati Uniti anche. Nel bel mezzo di queste due realtà un grande spazio in cui potersi muovere da una parte e dall’altra. La Coalizione lo sa e lo sanno Trump e Xi Jinping con quest’ultimo che, probabilmente (il tutto visto a grandissima distanza ovviamente), è in questo momento più soddisfatto dell’Australia e del suo governo di quanto lo possa essere il presidente Usa.
Albanese sarà in Cina sei giorni con una nutrita delegazione di leader industriali (altro servizio a pag.12) che avranno incontri d’affari a Shanghai, Pechino e Chengdu. Per il primo ministro colloqui già in agenda con il presidente Xi e il premier Li Qiang.
Il tutto mentre, sullo sfondo, sale la tensione per la presenza di navi-spia cinesi in prossimità delle coste australiane dove ieri ha preso il via la Talisman Sabre, la più grande operazione di esercitazioni militari organizzata congiuntamente con gli Stati Uniti, che coinvolge altri 19 paesi, rendendola un’esercitazione multilaterale, con lo scopo di migliorare l’interoperabilità e la prontezza per una vasta gamma di potenziali problemi di sicurezza nell’Indo-Pacifico. Una presenza, quella cinese, che non sorprende in quanto rientra – secondo quanto ha fatto osservare, ieri in un’intervista televisiva, il responsabile per i Servizi della difesa, Pat Conroy – nella ‘prassi’. “Così fanno tutti”, ha praticamente detto il ministro, quindi tocca ai cinesi in questo caso ‘osservare’ le esercitazioni cercando di carpire qualche ‘segreto’, ma anche le loro navi sono allo stesso tempo ‘spiate’ nel corso di questi ‘giochi di guerra’. In altre parole, fa tutto parte delle manovre.Conroy ha, comunque, fatto capire che la questione militare rientrerà in qualche modo nei colloqui tra Albanese e Xi, specie dopo che il ministro degli Esteri Penny Wong, alla vigilia o quasi della missione, ha parlato apertamente di una Cina che non sta mostrando una sufficiente trasparenza per quanto riguarda i suoi sempre più consistenti investimenti nella modernizzazione delle sue forze armate e in campo nucleare, concentrandosi sull’acquisizione di tecnologie avanzate, come missili ipersonici, sistemi di guerra elettronica e capacità di combattimento spaziale. Particolarmente significativa, secondo molti osservatori, la sua rapida espansione della flotta navale.
Missione quindi altamente diplomatica, oltre che commerciale (turismo da rilanciare, energie verdi, servizi), quella di Albanese, che sarà seguita con grande interesse anche dalla Casa Bianca: la Cina non ha mai nascosto la sua opposizione per l’accordo AUKUS (al momento ancora sotto revisione da parte Usa) e le sue preoccupazioni per le risposte globali (quindi anche australiane) alle richieste americane di potenziare le spese della difesa. Albanese ha della sua, almeno agli occhi di Pechino, la sua momentanea resistenza ad allinearsi alle percentuali indicate da Trump (o chi per lui), assicurando aumenti di investimenti in base alle proprie necessità militari, come ribadito anche ieri da Conroy.
Diplomazia in Cina, ma con lo sguardo rivolto anche a Washington, assicurando entrambi i Paesi ‘diversamente amici’ che, per quanto riguarda le decisioni anche in campo militare, l’Australia si riserva il diritto di decidere in proprio e quindi, nell’ambito AUKUS non darà mai le assicurazioni che gli Stati Uniti hanno dato l’impressione di aspettarsi su una specie di automatismo di intervento dei sommergibili del ‘nuovo corso’, che rientrano nel patto siglato anche con la Gran Bretagna, in caso di un conflitto con la Cina - che, ovviamente, speriamo non succeda mai - sulla questione di Taiwan.
Niente scelte preventive del governo Albanese, né commerciali, né militari, in tempi difficili in ogni angolo del Pianeta. Massima attenzione ad ogni mossa, ad ogni dichiarazione, ad ogni impegno da prendere o non prendere: non sono segni di debolezza, ma di un delicato equilibrio, forse mai così necessario prima d’ora.