L’Australia guidata da Anthony Albanese vive una fase di passaggio complessa, in cui le scelte su immigrazione e sicurezza pesano più del consueto sul dibattito politico e sull’opinione pubblica.
Non siamo davanti a una crisi istituzionale, ma a un intreccio di decisioni delicate che incidono direttamente sul modo in cui il Paese si percepisce e si racconta.
La gestione dei flussi migratori, la risposta alle minacce esterne e le tensioni nelle piazze non mettono in discussione la solidità delle istituzioni, ma obbligano il governo a misurarsi con domande di fondo: come garantire ordine, sociale ed economico, senza rinnegare i valori del multiculturalismo? Come conciliare fermezza e diritti in un contesto segnato da paure crescenti?
Il nuovo accordo con Nauru segna un’altro importante passaggio. Il ministro degli Affari interni Tony Burke ha firmato un memorandum che consente il trasferimento a Nauru di non-cittadini privi di un valido visto, in particolare appartenenti alla “cohort NZYQ”, quel gruppo di ex detenuti rilasciati dopo la sentenza dell’Alta Corte, che non hanno più facoltà di ricorso in giudizio.
L’Australia verserà a Nauru 408 milioni di dollari il primo anno e 70 milioni l’anno per il “long-term resettlement” delle persone trasferite. Burke ha ribadito il principio per cui chi non ha un visto regolare deve lasciare l’Australia. Ma, dietro le cifre ci sono le vite di centinaia di persone (con numeri più alti dichiarati dagli attivisti, stime al momento non confermate), che verrebbero spostate altrove. Le Nazioni Unite hanno in passato parlato di “violazioni sistematiche” dei diritti nei centri di Nauru e, nel 2025, hanno riconosciuto la responsabilità dell’Australia per detenzione arbitraria sull’isola. Eppure, Canberra torna a puntare su questa formula.
Non sorprende che le organizzazioni umanitarie abbiano reagito con durezza. L’Asylum Seeker Resource Centre parla di decisione “discriminatoria, vergognosa e pericolosa”. Gruppi di avvocati e accademici ricordano che molte delle persone coinvolte hanno già scontato pene o cercavano semplicemente un percorso di regolarizzazione.
Ma il governo deve rispondere alla sentenza dell’Alta Corte che ha reso illegittima la detenzione a tempo indeterminato: la liberazione del cosiddetto “cohort NZYQ” ha generato paure e molte polemiche, soprattutto perché alcuni ex detenuti rilasciati si sono resi responsabili di nuovi gravi reati. Su questo tema, evidentemente, Albanese non vuole più apparire debole, e sceglie così la via della durezza. Questa scelta si intreccia con un’altra svolta, di natura internazionale, che ha lasciato sorpresi molti osservatori. Dopo gli attacchi a una sinagoga di Melbourne e a un ristorante ebraico a Sydney, attribuiti a personaggi legatei ai Guardiani della Rivoluzione, il governo ha deciso di espellere l’ambasciatore iraniano, ritirare i diplomatici da Teheran e muoversi verso la classificazione dell’IRGC come organizzazione terroristica. Nello scorso mandato i laburisti aveva respinto le pressioni della Coalizione, scegliendo la via diplomatica e temendo le conseguenze di una rottura con l’Iran. All’improvviso, Albanese ha abbandonato la prudenza e ha abbracciato una linea da falco della sicurezza.
È un ribaltamento d’immagine molto netto. Il primo ministro, che per mesi aveva insistito sulla necessità della mediazione e sulla diplomazia multilaterale, si è trasformato in un difensore inflessibile della sicurezza nazionale, legando le sue scelte ai rapporti dell’ASIO. È il segno di un momento storico molto delicato in cui le agenzie di intelligence e della sicurezza devono dettare il passo alla politica, orientando le decisioni più di quanto accada nei dibattiti parlamentari.
Albanese ha scelto di presentarsi come garante della protezione degli australiani in un contesto in cui le strade delle città si riempiono di manifestazioni pro-Palestina e, allo stesso tempo, di raduni anti-immigrazione. È nelle piazze, infatti, che si misura l’altra faccia della crisi. Gruppi di estrema destra, con infiltrazioni di violenti neonazisti, sono scesi in piazza ieri per marce contro l’immigrazione, condannate sia dal governo che dall’opposizione.
Non si tratta di episodi isolati ma del sintomo di una pericolosa deriva che trova spazio delirante nei social e in alcuni politici che, ‘forti’ di percentuali di consenso che sfiorano lo 0%, cavalcano numeri falsi e narrativa razzista ed estremista.
La polizia del New South Wales ha dovuto mobilitare centinaia di agenti a Sydney per garantire l’ordine in una giornata segnata dalla coesistenza di una marcia anti-immigrazione, una manifestazione pro-Palestina e la maratona di Sydney e a Melbourne ci sono stati arresti dopo scontri tra manifestanti e attivisti pro-Palestina. L’immagine di un Paese attraversato da paure, divisioni e rancori si riflette, purtroppo, in un contesto del genere.
Il governo laburista si muove quindi in equilibrio instabile. Deve mostrarsi inflessibile per rassicurare un elettorato preoccupato, ma anche stare attento a non sacrificare la propria identità e i valori storici del partito. La tradizione laburista, fondata su giustizia sociale e solidarietà, potrebbe essere messa alla prova se determinate scelte dovessero somigliare troppo a una certa destra securitaria, anche quelle che comunque sono in continuità con decisioni politiche bipartisan, vedasi il memorandum con Nauru. Il pericolo è quello di logorare la fiducia non solo nel governo ma nella stessa capacità delle istituzioni democratiche di conciliare sicurezza e diritti.
Il cuore della questione resta la coesione sociale. L’Australia è un Paese costruito sull’immigrazione e sul multiculturalismo. Rinnegare questa base significa intaccare le fondamenta stesse della nazione. Ma l’assenza di regole chiare e credibili alimenta una percezione di insicurezza che non può essere ignorata. È in questo spazio, tra inclusione e paura, che si gioca il futuro del Paese. Non bastano slogan o decisioni emergenziali: serve una visione capace di rassicurare i cittadini senza calpestare i diritti, di mantenere la fermezza senza scivolare nel populismo.
Albanese ha scelto di reagire con decisione sia sul fronte interno che su quello internazionale. Ha stretto l’accordo con Nauru per mostrare controllo, ha sfidato Teheran per ribadire fermezza. Ma la vera sfida non sarà giudicata dall’immediatezza di questi atti, bensì dal loro effetto nel medio periodo. Se l’Australia diventerà un Paese che respinge i più vulnerabili e restringe i diritti in nome della sicurezza, allora avrà perso parte della sua anima.
Se, al contrario, riuscirà a trasformare queste crisi in un’occasione per rinnovare il proprio patto sociale, allora Albanese potrà dire di aver scritto una pagina diversa.
Il rischio più grande è che l’immigrazione, da motore della nostra crescita e della nostra identità, diventi terreno di divisione e sospetto. Sarebbe un tradimento della nostra storia e della nostra cultura. L’Australia deve rimanere un Paese aperto e inclusivo, capace di garantire sicurezza senza rinunciare alla propria anima. Albanese ha davanti a sé un compito difficile: governare la paura senza farsene governare.