MOGADISCIO - Una tempesta diplomatica sta travolgendo il Corno d’Africa. Migliaia di somali sono scesi in piazza a Mogadiscio e in diverse altre città del Paese per protestare contro la storica, quanto controversa, decisione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di riconoscere ufficialmente l’indipendenza del Somaliland.
La manifestazione principale si è consumata nello stadio della capitale, dove la folla ha sventolato bandiere somale e palestinesi in segno di sfida.
Dal podio, le parole dell’imam Dahir Imam Mohamud hanno dato una veste sacra alla mobilitazione: “Il popolo somalo è uno, unito da Dio”, ha proclamato con forza, rivolgendosi direttamente ai “fratelli” del Somaliland. Il suo è stato un appello accorato a non lasciarsi sedurre da quello che ha descritto come il gioco di un leader straniero “assetato di sangue”, lo stesso - ha sottolineato - che ha segnato il destino del popolo palestinese.
Ma la rabbia non è rimasta confinata tra le mura della capitale. Da Baidoa fino a Guriceel, un unico coro di protesta ha attraversato il Paese: un rifiuto collettivo verso quel riconoscimento israeliano bollato come “vuoto” e privo di ogni valore legale. Per le strade, il messaggio è stato chiaro: la sovranità non è in vendita e l’integrità della Somalia resta un confine invalicabile.
Il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud, attualmente in visita ufficiale in Turchia, ha usato parole durissime per condannare la mossa di Tel Aviv: “È la più grande violazione della sovranità della Somalia e una minaccia diretta alla sicurezza e alla stabilità del mondo e dell’intera regione”.
Per Mogadiscio, l’atto di Israele non è solo una questione diplomatica, ma un attacco all’integrità territoriale di una nazione che combatte da decenni per la propria unità.
Mentre Mogadiscio brucia di rabbia, nelle città del Somaliland si festeggia. Per la repubblica autoproclamata, separatasi dalla Somalia nel 1991, la mossa di Israele rappresenta la fine di un isolamento durato oltre trent’anni.
Nonostante sia rimasto per decenni in un limbo giuridico, il Somaliland ha costruito nel tempo una realtà che sfida i canoni classici della geopolitica africana. A differenza della Somalia meridionale, devastata dal caos e dalla minaccia costante dei terroristi di al-Shabaab, questa regione è riuscita a garantire ai propri cittadini una relativa stabilità, fondata su istituzioni solide e un’amministrazione che funziona.
Il Somaliland non è solo un’idea sulla carta, ma uno Stato di fatto: possiede un proprio esercito addestrato, una polizia che garantisce l’ordine pubblico e una valuta nazionale, lo scellino del Somaliland, che circola nei mercati locali.
A rendere questo territorio una pedina fondamentale nello scacchiere mondiale è però la sua posizione strategica. Il Paese si affaccia direttamente sullo stretto di Bab-el-Mandeb, quella “porta delle lacrime” che funge da imbuto per il commercio globale. Da qui transita circa il 12-15% del traffico marittimo mondiale, in una rotta vitale che collega le ricchezze dell’Oceano Indiano direttamente al Canale di Suez e all’Europa. È proprio questo controllo sulla costa che ha spinto Israele a rompere gli indugi, vedendo nel Somaliland un alleato chiave per sorvegliare una delle aree più calde e trafficate del pianeta.
Fino a venerdì scorso, nessun Paese aveva mai riconosciuto pubblicamente il Somaliland. La mossa di Netanyahu rompe questo isolamento, ma rischia di incendiare definitivamente i rapporti tra il mondo musulmano e lo Stato ebraico, inserendosi nel già complesso puzzle della guerra contro gli Houthi nello Yemen.