Sembrano alquanto chiare, almeno a giudicare da queste prime battute del nuovo corso parlamentare della maggioranza laburista, quali siano le sfide che si andranno ad affrontare come sistema Paese, sfide che definiranno la traiettoria economica e politica australiana per il prossimo decennio: la transizione energetica, il ripensamento del sistema fiscale e una collocazione geopolitica sempre più complessa, in particolare rispetto al conflitto in Medio oriente. Su questi fronti, il primo ministro Anthony Albanese ha intrapreso un cammino molto ambizioso, che potrebbe consolidare il ruolo dei laburisti come moderna forza progressista in grado di intercettare le istanze riformiste in primo piano in questo momento storico.
Si discute da molto della trasformazione del sistema energetico nazionale: l’obiettivo è raggiungere l’82% di energia da fonti rinnovabili entro il 2030 e fissare, entro poche settimane, un nuovo obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2035, verosimilmente compreso tra il 65% e il 75%. Per il governo, si tratta non solo di una scelta ambientale, ma dell’occasione per ridefinire l’identità economica dell’Australia, trasformandola in una “superpotenza verde”.
Tuttavia, la strada scelta è tutt’altro che priva di ostacoli. Come ha riconosciuto lo stesso ministro per l’Energia, Chris Bowen, accelerare l’investimento nelle rinnovabili è essenziale per mantenere la credibilità del piano. Per questo il governo ha deciso di espandere del 25% lo schema di Capacity Investment Scheme, con l’obiettivo di sottoscrivere 40GW di nuovi impianti solari, eolici e di accumulo. Gas escluso. Una scelta coerente con la visione del governo, ma che rischia di lasciare vulnerabile l’intero sistema nei momenti di picco di richiesta energetica.
L’ottimismo del titolare del dicastero dell’energia, infatti, si scontra con analisi più severe, come quella dell’economista Ross Garnaut. L’architetto delle prime politiche climatiche dei governi Rudd e Gillard ha lanciato un avvertimento che è suonato senza appello: “Stiamo andando verso una crisi della politica climatica ed energetica. Gli obiettivi attuali non sono raggiungibili senza profondi cambiamenti.” Il cuore del problema è la mancanza di investimenti privati non sovvenzionati. In altre parole, il mercato non crede, almeno non ancora in maniera rilevante, nella redditività di questa rivoluzione.
Il vero nodo, tuttavia, è che la politica climatica è da tempo materia di battaglie ideologiche, a volte anche troppo lontana dalle esigenze quotidiane di famiglie e imprese. Come ha sottolineato il liberale moderato Tim Wilson, l’obiettivo della neutralità carbonica non può essere perseguito “a qualunque costo”. Una frase che, pur mantenendo l’impegno simbolico verso il net zero, sposta l’accento sui costi reali della transizione, soprattutto in termini di prezzi dell’energia, competitività industriale e impatto sul tenore di vita.
Albanese sa bene quanto sia importante tenere alta l’attenzione anche sulle bollette, e che l’attuale sconto energetico per le famiglie finirà a fine 2025. Se i prezzi dovessero esplodere nel 2026, come molti temono, la credibilità del governo sulla gestione della transizione andrà in crisi. La stessa base industriale del Paese lancia segnali d’allarme: dai giganti minerari come Rio Tinto ai fornitori energetici come Origin ed EnergyAustralia, la richiesta è chiara – serve una transizione affidabile, coordinata e sostenibile, non un salto nel buio ideologico.
In parallelo, il governo lavora a una riforma fiscale strutturale. Il ministro del Tesoro Jim Chalmers, in vista della tavola rotonda di fine mese, si trova stretto tra le richieste delle rappresentanze sindacali, che chiedono la fine dei sussidi fiscali per gli investitori immobiliari (negative gearing e sconti sulle plusvalenze), e le proposte della Commissione per la produttività, che punta a ridurre la pressione fiscale sulle piccole e medie imprese con tagli all’imposta sulle società fino a 10 punti.
Questi due fronti delineano una tensione profonda: da un lato, la necessità di alleggerire il carico sulle imprese per stimolare investimenti e produttività; dall’altro, l’urgenza di rendere il sistema più equo, in un Paese dove il costo delle case è fuori controllo e le fasce più giovani e a più basso reddito sono di fatto esclusi dal mercato immobiliare. Ma la memoria della sconfitta elettorale di Bill Shorten nel 2019, dove il tema del negative gearing ha causato non pochi danni, pesa ancora.
Il coraggio riformista di Chalmers sarà misurato anche sulla sua capacità di affrontare queste rendite di posizione senza temere il contraccolpo cercando una soluzione di equilibrio.
Sul fronte internazionale, Anthony Albanese ha finora evitato i riflessi condizionati dell’opinione pubblica e delle componenti più a sinistra del suo partito su Gaza. Pur guidando un partito che storicamente ha sempre simpatizzato per la causa palestinese, il primo ministro ha rifiutato, almeno per adesso, di seguire Francia, Canada e Regno Unito nella dichiarazione di un futuro riconoscimento di uno Stato palestinese, affermando tra l’altro una posizione finanche ovvia: uno Stato, un terrritorio come Gaza, che oggi è governato da una organizzazione terroristica non può ottenere un riconoscimento senza garanzie che prima possa esserci una transizione di potere verso strutture democratiche.
La posizione di Albanese, in questo caso, è stata più sobria rispetto a quella dei suoi omologhi europei. Una scelta non priva di rischi interni, vista, come detto, la crescente pressione dell’ala sinistra del Partito Laburista e di una parte dell’elettorato più giovane che vede nell’azione israeliana a Gaza una crisi umanitaria intollerabile, come dimostrato dalle folle che sono scese in strada ieri a Sydney e a Melbourne. Ma il primo ministro ha scelto di mantenere una linea diplomatica realista, cercando di preservare il ruolo dell’Australia come interlocutore credibile nella regione e difensore del diritto internazionale.
Resta però il nodo irrisolto: per quanto tempo Albanese potrà sostenere questa posizione di equilibrio senza perdere consenso tra i suoi sostenitori più radicali? Il dibattito interno al partito non è terminato, e si riaccenderà ogni volta che nuove immagini arriveranno da Gaza. L’equilibrismo diplomatico ha un orizzonte limitato e la propaganda, dall’una o dall’altra parte, ha molto più impatto mediatico rispetto ad analisi più approfondite del problema in Medio oriente.
Insomma, questo secondo mandato per Anthony Albanese si presenta con una serie di sfide sociali, economiche e internazionali. L’ambizione non manca: rifondare il sistema energetico, correggere le distorsioni del fisco, mantenere una postura internazionale autorevole e coerente. Ma la somma di queste iniziative – ciascuna controversa – rischia di sovraccaricare la capacità di gestione del governo e di renderlo vulnerabile su più fronti contemporaneamente.
L’opposizione, per ora, appare ancora troppo divisa per approfittare di passi falsi che, tra l’altro, al momento non ci sono neanche. Ma non sarà così per sempre, a meno che Sussan Ley e la sua squadra voglia scomparire nell’oblio. Spetta comunque a chi governa dimostrare che la transizione ecologica porta benefici tangibili, che la riforma fiscale migliora davvero la vita delle famiglie e che la politica estera è coerente con i valori democratici dell’Australia, il rischio di un’inversione di rotta potrebbe essere reale.
La vera sfida di Albanese non è prettamente ideologica: è gestionale. È quella di tenere insieme idealismo e pragmatismo, scienza e consenso, ambizione e risultati. È questo che distingue un leader visionario da uno che resta schiacciato delle proprie promesse e ambizioni. E oggi, non solo in Australia, quella differenza conta più che mai.