Alla Mostra del Cinema 2023, in corso di svolgimento a Venezia, Pierfrancesco Favino è sbottato chiedendo a ciascuno di fare la propria parte, “fare sistema”. La sua battaglia riguarda il modo in cui il cinema straniero guarda all’Italia in tema di stereotipi, che è una storia vecchissima di pizza e mandolino, ma anche di interpretazioni. “I Gucci avevano l’accento del New Jersey non lo sapevate?”, ha detto ironico citando la produzione di Ridley Scott “House of Gucci”. Adesso ci si mette “Ferrari” di Michael Mann con Adam Driver nel ruolo del Drake. “C’è un tema d’appropriazione culturale, non si capisce perché non io, ma attori di questo livello - ha detto riferendosi ai colleghi Toni Servillo, Adriano Giannini, Valerio Mastandrea - non sono coinvolti in questo genere di film che invece affidano ad attori stranieri lontani dai protagonisti reali delle storie, a cominciare dall’accento esotico. Se un cubano non può fare un messicano perché un americano può fare un italiano? Solo da noi. Ferrari in altre epoche lo avrebbe fatto Vittorio Gassman, oggi invece lo fa Driver e nessuno dice nulla. Mi sembra un atteggiamento di disprezzo nei confronti del sistema italiano, se le leggi comuni sono queste allora partecipiamo anche noi”.

“Credo che Favino abbia fatto bene a dire questa cosa però il problema è che la situazione è molto più complicata di quanto sembri e comune. Ad esempio, in ‘Schindler’s List’ Steven Spielberg ha preso un attore americano che interpreta un tedesco. Certo su certe icone italiane, come un film su Giorgio Armani con un attore americano certo che è sbagliato”. Così il regista premio Oscar Gabriele Salvatores, che però non ha dubbi che spesso “c’è la tendenza degli americani a rendere ridicole certe nostre realtà. Ci vedono un po’ come ‘caratteristici’, in una certa maniera sbagliata. Però - ha ribadito - è un discorso talmente complesso perché poi va tenuta conto anche la distribuzione internazionale”.

“So di stare sulle scatole, sono cinquant’anni che mi interrogo perchè, forse perchè sto sempre da una parte, quella del mio pensiero” ha detto Luca Barbareschi, intervenendo su quanto detto dal collega Favino “Tutto il mondo recita nelle lingue di appartenenza, solo noi continuiamo a pensare di dover far l’inchino agli americani. Il problema non è la lingua di per sè, tanto doppiamo tutto, ma culturale. Favino ha ragione, io stesso un anno fa ho detto le stesse cose, lo stimo e trovo insopportabile questa nuova moda, partita con ‘House of Gucci’, in cui si mette in scena come parlerebbero gli italiani fatti dagli inglesi e americani, un inglese italianizzato recitato però da un disastrato mentale. Ora in ‘Ferrari’ c’è Penelope Cruz che parla in accento spagnolo tentando di essere romagnola, tipo esorcista con varie voci dentro di sè. Il problema vero è che dovremmo essere noi a raccontare le storie italiane. Con questo non dico di proibire nulla, ma mi auguro si facciano grandi investimenti culturali. Dispiace lasciare agli altri raccontare noi italiani, che invece abbiamo un potenziale creativo infinito”. A Venezia, dopo esser stato la voce del contumace Roman Polanski per “The Palace”, che ha coprodotto e pure interpretato con un cameo irriconoscibile in cui è un pornodivo decaduto, oggi è regista, produttore, protagonista di “The Penitent”, un bel film fuori concorso scritto da David Mamet e ispirato a un caso di cronaca di fine anni ‘70, il caso Tarasoff con al centro temi attuali ancora come l’influenza della stampa, la strumentalizzazione della legge, temi che si innestano sul terreno personale della spiritualità e dei rapporti familiari.

E la sala della conferenza stampa al Casinò, prima piena per Woody Allen (“Coup de chance”) e per Sofia Coppola (“Priscilla”), si è svuotatata completamente, tanto per ribadire il concetto dell’“inchino agli americani”. Ma nonostante il fiume articolato, riflessivo e colto delle parole, Barbareschi è rimasto con i nervi saldi e ha osservato: “Mi sento privilegiato e felice, sono a Venezia con due film, se mi avessero detto cinquant’anni fa di venirci con un film prodotto per Polanski e un altro diretto da me e scritto da Mamet non ci avrei creduto. Qua non mi vogliono, mi imbuco alle feste, ballo con il direttore Alberto Barbera, non mi faccio rovinare il momento”.

“The Penitent”, che è il suo primo film americano e ha un cast internazionale con Catherine McCormack, Adam James, Adrian Lester è una moral play, “non un film facile, parla male della macchina giudiziaria e della stampa, un film violento su questi temi”. Reinterpretando il caso Tarasoff parla di uno psichiatra (Barbareschi) che vede deragliare la sua carriera e la sua vita privata dopo essersi rifiutato di testimoniare a favore di un ex paziente violento e instabile che ha causato la morte di diverse persone. L’appartenenza alla comunità LGBT del giovane paziente, il credo ebreo del dottore, la fame di notizie della stampa e il giudizio severo della legge, aggravati da un errore di stampa dell’editor di un giornale, sembrano essere gli elementi che fanno scatenare una reazione a catena esplosiva. La gogna mediatica e l’accanimento del sistema giudiziario si sommano al dilemma morale nel professionista che si trincera dietro al giuramento di Ippocrate per difendersi dalle interrogazioni, dalle pressioni e dai tradimenti di tutti alla ricerca della verità.