WASHINGTON – Il braccio di ferro tra i due giganti continua. Come preannunciato dal presidente Donald Trump, gli Stati Uniti hanno imposto alla Cina da ieri, 9 aprile, dazi del 104%. Lo ha reso noto la Casa Bianca a Fox News. È la reazione a Pechino, ‘colpevole’ di non aver voluto rimuovere i dazi già imposti sul Made in Usa dopo le nuove misure tariffarie applicate da Washington lo scorso 2 aprile.
In precedenza c’era stata una dura risposta della Cina contro la politica commerciale degli USA, il più grande partner commerciale di Pechino. Ma incombono i timori per lo scontro frontale con Pechino, che respinge il “bullismo” economico degli USA, attacca il vicepresidente JD Vance e risponde colpo su colpo.
Il ministero del Commercio di Pechino ha avvisato che la Cina non accetterà mai “la natura ricattatoria” dei dazi americani e considera le ultime minacce “un errore dopo un altro”. “Se gli Stati Uniti continueranno sulla loro strada, allora Pechino lotterà fino alla fine”, ha messo in guardia.
Poi è arrivato il primo duro attacco diretto da parte della leadership mandarina: “Si tratta di un tipico atto di unilateralismo, protezionismo e prepotenza economica”, ha accusato il premier cinese Li Qiang, che in una telefonata con la presidente del Consiglio Ue, Ursula von der Leyen, ha anche assicurato che Pechino dispone “di sufficienti strumenti di politica di riserva per tutelarsi del tutto da influenze esterne avverse”.
Le autorità finanziarie cinesi, i gestori dei fondi statali e le imprese collegate allo Stato hanno già cominciato a sostenere i mercati azionari del Paese, mentre le autorità hanno lasciato indebolire lo yuan per rendere più competitivo l’export. Insomma, Pechino non vuole apparire debole e piegarsi all’avversario numero uno, con cui si gioca la sfida per la leadership globale nei prossimi decenni.
Tanto da attaccare pesantemente anche Vance per aver detto: “Noi prendiamo in prestito soldi dai contadini cinesi per comprare le cose che producono”. Un riferimento al fatto che Pechino detiene una grande quantità di titoli del Tesoro USA, che sono una forma di debito, e la domanda cinese di questi titoli aiuta a mantenere bassi i tassi di interesse americani, consentendo agli Stati Uniti di indebitarsi di più a tassi favorevoli. “È sorprendente e triste sentire parole così ignoranti e maleducate da questo vicepresidente”, ha commentato il portavoce del ministero degli Esteri cinesi.
Pechino ha dalla sua parte la “opzione nucleare” del Treasury: è il secondo Paese straniero che ne ha di più in portafoglio, circa 761 miliardi di dollari, e se dovesse decidere di sbarazzarsene infliggerebbe un duro colpo agli Stati Uniti. Al momento le probabilità che Pechino ricorra a un tale strumento sono limitate perché anche la Cina pagherebbe un prezzo elevato da tale mossa. Ma il solo avere nel proprio arsenale un’arma così potente concede a Pechino una leva potenzialmente importante nelle trattative.
Donald Trump, intanto, apre a negoziati “su misura” sui dazi con “quasi 70 Paesi” in coda per parlare, a partire da Corea del Sud e Giappone. Una mossa che rianima le Borse di tutto il mondo, benché le tariffe resteranno in vigore durante le trattative, come ha avvisato la Casa Bianca. Lo ha annunciato la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, sottolineando che tutte le opzioni restano sul tavolo per ciascun Paese. I dazi pesano infatti direttamente anche su Donald Trump.
Il presidente americano - secondo i calcoli di Forbes - valeva, la scorsa settimana, prima di dare il via alla guerra commerciale, 4,7 miliardi di dollari. Ora ne vale 4,2, in seguito al calo dei titoli della Trump Media and Technology Company, che nelle ultime tre sedute ha perso l’8% scivolando ai minimi da ottobre. “Anche la Cina vuole fare un accordo, ma non sa come farlo partire. Stiamo aspettando la loro chiamata. Accadrà!”, ha scritto, su Truth, il Presidente.