VENEZIA - C’è un momento in cui, dopo una lunga serie di ‘mmh’ e ‘non ricordo’, il presidente della Corte d’Assise Stefano Manduzio prova a esortarlo: “Non dovrebbe essere esageratamente difficile fare una ricostruzione”. Filippo Turetta, jeans scuro e felpa col cappuccio nera, tiene lo sguardo chino quasi sempre sul banco dell’imputato verso un immaginario copione che non ha e si vede perché più volte tentenna e si contraddice. 

Anche se il suo avvocato ha consegnato ai giudici un memoriale di 80 pagine scritto a mano nel carcere di Verona il cui contenuto in parte ripete ma spesso rettifica. Pochi metri più in là lo ascolta Gino Cecchettin, il padre di Giulia, l’ingegnera con la passione dei fumetti che ha ucciso, “la ragazza meravigliosa a cui ho tolto il futuro”, la definisce Turetta nei suoi appunti in cella dove viene seguito da uno psicologo. 

In seconda fila, in giacca e cravatta, dritto sulla sedia, il tentativo di contenere la tempesta di sentimenti, in una pausa dell’udienza decide di lasciare l’aula e forse per la prima volta in un suo commento si avverte una scintilla di rabbia verso il ragazzo. Se finora gli aveva dedicato una sostanziale indifferenza, concentrato nel suo impegno in giro per l’Italia per evitare che altre vite di donne vengano annientate, ora Gino sbotta: “Perché non mi ha guardato? Chiedetelo a lui. Io l’ho guardato ogni tanto mentre parlava ma non è questo il punto del processo. Il momento più doloroso è stato sapere cosa ha attraversato mia figlia negli ultimi momenti della sua vita. Ora vado via, non ho bisogno di restare. Il punto è che abbiamo capito chi è Filippo Turetta. Per me è chiarissimo, quello che emerge oggi è che la vita del prossimo è una cosa sacra e non bisogna entrare nel merito della vita degli altri, ma rispettarla”. 

L’udienza entra nel cuore del capo d’imputazione. È noto che l’unico punto sul quale potrebbe insistere la difesa per avere qualche remota speranza di evitare l’ergastolo è l’assenza della premeditazione. Ma così non è, anzi. Turetta ammette che la “lista delle cose da fare” era in previsione dell’omicidio, compresa la compra dello scotch che nell’interrogatorio durante le indagini aveva sostenuto di avere comprato per la festa di laurea di Giulia. Invece gli sarebbe dovuto servire per “farla tacere” così come l’acquisto dei due coltelli, che fece “per sicurezza”. 

Poi si contraddice dicendo prima che avrebbe voluto solo rapirla per stare “qualche giorno con lei” ma ammette in un momento successivo dell’esame che “il rapimento era una strada senza ritorno e volevo allungare un po’ il tempo con lei e poi toglierle la vita”. E suicidarsi ma ammette di non avercela fatta per “la paura del dolore fisico”. 

Il momento in cui i respiri si fermano in aula è quando l’avvocato Nicodemo Gentile, che assiste Elena Cecchettin, va diretto: “Perché ha ucciso Giulia?”. La riposta dura quattro minuti costellati per lo più da vocalizzi e silenzi. “Io volevo tornare insieme a lei, tornare ad avere un rapporto, di questo soffrivo molto e provavo risentimento verso di lei. Avevo rabbia perché lei non voleva. Penso sia questa la verità. Ovviamente sono pensieri ingiusti: incolpavo lei di non riuscire a portare avanti la mia vita”. È l’unico momento in cui piange.  

Alcune domande riguardano la dinamica del delitto, quelle del pm Andrea Petroni e delle parti civili in particolare. La dinamica ricalca quella già descritta nell’interrogatorio. Di ‘nuovo’ spiega perché ha coperto con dei sacchi il corpo di Giulia nell’anfratto vicino al lago di Bracis. “Non volevo che si vedessero le brutte ferite, era in cattive condizioni e volevo evitarle quel momento e di vedere la situazione”. 

L’ultima parte dell’esame tocca al suo legale, l’avvocato Giovanni Caruso che ha voluto un processo veloce, senza testimoni, senza richieste di perizia psichiatrica. Nulla, se non l’assunzione di responsabilità. Però annuncia di voler far conoscere ai giudici “chi è Filippo Turetta perché c’è una compenetrazione tra il fatto reato e l’autore del reato”. Si descrive, anche qui con molta fatica, definendosi “timido”, accenna alla sua carriera scolastica, alla pallavolo giocata a livello agonistico, ai pochi amici “perché, mi rendo conto, ero poco intraprendente, poco interessante”. 

Con loro non sviscerava il disagio con Giulia, “la mia prima fidanzata, la storia da cui ero ossessionato”, perchè erano cose private, personali. Il nome di Giulia lo fa due volte rispondendo a Caruso. La prima quando viene invitato a spiegare se sappia perché’ si trova a processo. “Per aver commesso l’omicidio di Giulia con crudeltà, premeditazione”. E la seconda: “Penso che sia qualcosa di giusto essere qua, un dovere verso la giustizia, ma soprattutto verso Giulia e tutte le persone colpite. Voglio espiare la mia pena, non mi scuso coi familiari di lei perché sarebbe ridicolo rispetto all’entità di quello che ho fatto”. 

In aula non c’è Elena Cecchettin, che vive e studia da tempo negli Usa. “Mi sto curando, per me sarebbe uno stress enorme partecipare all’udienza” scrive sui social. Il 25 novembre il pm terrà la requisitoria. L’11 novembre sarà il primo anniversario della morte di Giulia Cecchettin che ha riempito di ‘rumore’ le piazze e, se non ha cambiato il destino delle altre donne uccise dopo di lei, ha portato come mai nessuno il tema nelle scuole e nelle case. 

“Cosa ricordo di lei? Che devo dire: è il mio amore” le parole di Gino mentre si lascia alle spalle un palazzo di giustizia a cui ha più volte ha dichiarato di non avere nulla da chiedere perché la sua energia è per quello che c’è fuori, a evitare che si leggano altre storie come questa.