Il giorno dopo sono all’aeroporto con lo zainetto in spalla e quella strana sensazione di euforia e terrore che avevo il primo giorno di liceo: stavo per partire per una pausa dal lavoro lunga tre mesi.

Atterro ad Amburgo e quello splendido sole estivo adesso è un’irritante pioggerella, che credo mi accompagni per tutta la mia permanenza. Mi sbaglio, gennaio è clemente e vola via così veloce, che all’improvviso mi ritrovo a fine febbraio a cercare un volo di ritorno. 

Poi un giorno esplode il mondo.

La grande domanda tra tutti è: cosa facciamo? Restiamo o torniamo? La situazione cambia troppo velocemente per poter prendere una decisione. Dobbiamo fare la quarantena? Sì, ma dove? Dove hai la residenza ufficiale. La mia è a casa dei miei genitori, persone di poco più di 60 anni che fino a ieri consideravamo giovani e che oggi scopriamo essere già vecchi.

Ma ormai è fatta, dobbiamo restare dove siamo. Anche se mamma ti telefona 20 volte al giorno per aggiornarti su ogni possibilità di tratta aerea. Anche se il Consolato non sa darti una risposta.

E allora aspettiamo.

Uno dopo l’altro sentiamo chiudere scuole, negozi, uffici, impianti. È la quarantena. 

Invece qui ad Amburgo la gente continua tranquillamente a vivere, come se non stesse succedendo niente. Come se l’Italia fosse lontana così come lo era la Cina solo due settimane fa.

Per fortuna abbiamo la tecnologia. Ogni giorno dopo la scuola ci sono quelle 3, 4 a volte 5 ore di chiacchiere al telefono, su Skype, su Zoom, su Whatsapp. Chiacchiere su niente, giusto per passare il tempo e non pensare. 

Se vuoi parlare, io ci sono quando vuoi.

Certo che ci sono, ma in realtà mi sento in colpa, così come mi sentivo in colpa appena tre mesi fa in classe, mentre davanti ad uno studente australiano in lacrime, perché l’Australia andava a fuoco e i suoi amici morivano, noi a Roma ci preparavamo a festeggiare Natale.

Mi sento in colpa, perché io posso uscire di casa. 

Lavati le mani, copriti la faccia, stai lontana dalle persone, mi raccomandano i miei genitori.

Fai attenzione e esci il meno possibile, mi raccomanda una collega.

Ma la situazione qui è tranquilla, non vi preoccupate, vedete che tra un paio di settimane passa tutto, rispondo io. Poi attacco il telefono e piango, perché non è vero, non lo penso affatto.

Poi una mattina la telefonata inaspettata e concitata di mia madre: è vero, abbiamo chiuso i confini. I confini. Sono cresciuta in Europa e chiudere i confini di Stato è un’idea a cui non ho mai pensato. Noi i confini non li abbiamo mai avuti. 

E in un attimo tutte quelle parole di rassicurazione svaniscono nel nulla, come se il mondo stesse collassando in un vuoto temporale. Non è possibile, è surreale.

Dopo qualche giorno abbiamo la testimonianza che le frontiere non esistono, chiude anche la mia scuola ad Amburgo. Ci convocano divisi per classi e per orari per comunicarci come continueremo le lezioni, anche se non si può, le scuole da oggi sono ufficialmente chiuse. Una compagna di classe entra con me nello studio della direttrice, anche se non si può, siamo tre, è assembramento. Dobbiamo fare della burocrazia. La direttrice mi guarda e mi chiede: “Alles gut? Deiner Familie, deinen Freunden, geht’s ihnen gut?”. Lei lo sa, ne abbiamo già parlato. La mia compagna di scuola mi fa, “Schaffst du es?”, “Ich bin nicht so sicher”, lei sorride, mi dà uno scappellotto e mi fa “kein Problem, wir schaffen es zusammen!”, “Ja, das stimmt!” le fa eco la direttrice. Perché siamo italiana, olandese e tedesca e confine è solo una parola. 

Come parole sono soldi ed economia, perché prima di tutto vengono le persone.

Quelle stesse persone che ora guardo con sospetto e di cui comincio ad avere paura.

Per settimane leggo e ascolto solo numeri e statistiche, perché non ci credo, non può essere possibile. Intorno a me sento solo discorsi irrazionali, folli esegesi sulla sopravvivenza economica, tesi veteronazionaliste su chi abbia il migliore sistema sanitario. Ormai è una guerra tra poveri. Tra poveri di spirito. Una guerra che ho cominciato a non reggere più. 

Ho salutato amici che tornavano a casa con lo stesso spirito con cui gli amici si salutano dopo aver scoperto di essere diventati nemici, perché i loro Stati si sono dichiarati guerra. E non li ho abbracciati, perché non si può.

Penso a tutte le persone che ho conosciuto. Mille storie diverse, mille sorrisi sparsi per il mondo. Un mondo che sembra voglia prendersi la rivincita su di noi.

Quando ci vedremo la prossima volta faremo un grande aperitivo tutti insieme. Questa è la promessa. Perché no, io non voglio cantare sul balcone. Certo è molto commovente, ma le persone le voglio vedere di persona, stargli vicino, toccarle. E aspetterò per questo.

E intanto guardo le immagini dei droni che volano sulla mia città, per la prima volta deserta, e penso: quanto è bella Roma, con le sue rovine, con i parchi, con le piazze. Ma che senso ha Roma senza nessuno che la possa vivere?

In questo momento il tempo si è bloccato. Tutti i giorni sono uguali.

Dopo quattro settimane di quarantena non ce la faccio più. Prendo la biciletta e vado nel parco, che si può ancora fare, basta non essere più di due.

Come in un film, con la camicia un po’ troppo grande sotto il caldo sole di primavera, vado a tutta la velocità che la sedentarietà mi permette, e con il vento in faccia adesso capisco una cosa. Malgrado tutti i “non si può” ho trovato la mia libertà e non una banale libertà, bensì la libertà nella mia mente. 

Perché quando tutto sarà finito, non mi sentirò una persona diversa, sarò solamente me stessa, ma con consapevolezza.

Volevo che il 2020 fosse il mio anno. Ora ho capito che non lo è, non il mio. È il nostro anno, di tutti noi. Perché tutti insieme ce la facciamo, veramente.