CANBERRA – Venerdì 13 marzo, poco più di due settimane fa, il primo ministro Scott Morrison aveva dichiarato, davanti alle telecamere, che nel weekend sarebbe andato a vedere la prima partita del campionato di rugby della sua squadra, il Cronulla Sharks (qualche consiglio e un minimo di buon senso gli hanno fatto cambiare idea), allo stesso tempo il capo della Sanità,Brendan Murphy, dava la mano a tutti assicurando che si poteva tranquillamente farlo. Tre giorni dopo sarebbe entrata in vigore la prima misura anti-coronavirus, con il divieto di assembramento all’aperto di più di 500 persone. Una sola settimana dopo è cambiato tutto, due settimane dopo siamo alle soglie della possibile ‘fase tre’ (perlomeno nel Victoria e nel New South Wales, i due Stati col numero maggiore di contagi da Covid-19) delle restrizioni dei nostri movimenti, dalla chiusura quasi totale di ogni attività commerciale ‘non essenziale’ per cercare di contenere l’epidemia.
‘Fase tre’ già raggiunta per quello che riguarda il processo di accettazione del dramma che stiamo vivendo, perché il coronavirus anche in Australia, come nel resto del mondo, all’inizio è stato sottovalutato. Anche se qui c’era la possibilità di non farlo perché abbiamo avuto la fortuna di partire in ritardo rispetto all’Europa, ma soprattutto dell’Italia, massimo esempio della devastazione che l’infezione procura. Almeno due settimane di vantaggio e il fatto di essere una, pur enorme, isola: opportunità non interamente sfruttate.
Certo non era facile politicamente chiudere prima i confini e bloccare i voli non solo dalla Cina, (qualcuno ora fa finta di dimenticare quello che è stato detto quando Morrison ha annunciato il trasferimento e la quarantena, nel centro per richiedenti asilo di Christmas Island, degli australiani che facevano rientro da Wuhan, primo epicentro della pandemia). Ora, con l’infallibile ‘senno del poi’, si comincia a dire che bisognava agire prima. Dopo la falsa partenza sono comunque arrivate le decisioni sugli assembramenti, quindi la chiusura di pub, bar, ristoranti, palestre, musei ecc, il dibattito (ancora aperto) sulla chiusura e non chiusura delle scuole, il blocco dei voli anche interni, gli inviti troppo spesso non rispettati dell’auto-isolamento da chi arrivava dall’estero, l’assurdo sbarco senza controlli di 2700 passeggeri (le conseguenze continuano ancora oggi ad ingrossare il numero dei contagi in diversi Stati) dalla nave da crociera Ruby Princess a Sydney. Da mezzanotte di sabato l’ottima idea dell’isolamento forzato, con tanto di aiuto dell’esercito, degli australiani che rientrano (e sono migliaia) da ogni angolo del mondo, in alberghi che hanno stipulato contratti di ‘sopravvivenza’ e aiuto sociale con i governi statali. Ogni giorno, come Morrison aveva anticipato, una correzione, ogni giorno un aggiustamento di tiro per fronteggiare l’emergenza, con i risultati di ogni decisione che, purtroppo, non possono essere immediati: ogni conseguenza, positiva o negativa, arriva una o due settimane dopo. Per questo anche ieri il primo ministro, annunciando nuovi massicci investimenti nel campo della sanità e preannunciando imminenti nuove misure finanziarie per aiutare sia le aziende che i loro dipendenti, ha inisistito sul progetto di portare avanti simultaneamente la doppia sfida sanitaria ed economica (anche se la prima avrà sempre la precedenza, a prescindere dalle accuse di Anthony Albanese di priorità confuse del primo ministro). Ieri mattina il capo di governo, affiancato dal ministro della Sanità Greg Hunt, ha annunciato uno stanziamento di 1,1 miliardi di dollari per dare il via da oggi, su scala nazionale, al servizio ‘telehealth’ che permette ad ogni cittadino la possibilità di rimanere in contatto diretto col proprio medico o personale infermieristico via telefono o video (FaceTime). Consultazioni, con pagamenti via Medicare, da casa - quando possibile ovviamente -, per evitare di doversi recare negli ambulatori medici. Un investimento federale di 669 milioni di dollari al quale vanno a sommarsi 74 milioni per potenziare i servizi riguardanti la salute mentale, messi a dura prova da restrizioni e ansietà da virus. Altri 150 milioni del nuovo pacchetto-sanità destinati ai servizi per fare fronte ad un preventivato aumento dei casi di violenza domestica e altri 200 milioni destinati agli enti caritatevoli che offrono i loro servizi per aiutare le famiglie più bisognose, gli anziani, i senzatetto ecc.
Ormai vicinissimo l’annuncio di un nuovo pacchetto d’emergenza sul fronte economico, con il primo ministro che ieri ha invitato le aziende a resitere, a non ridurre i loro organici perché il governo sta finalizzando un piano multimiliardario a sostegno delle imprese e di tutti i lavoratori dipendenti, anche di coloro che hanno perso il lavoro la scorsa settimana e che sono andati ad ingrossare paurosamente le file dei disoccupati. Non sarà un pacchetto ‘copia-incolla’, come è stato suggerito da più parti, in stile Gran Bretagna o Nuova Zelanda, con l’assicurazione dell’80 per cento del proprio stipendio, ma un progetto – ha spiegato Morrison - che cercherà di usufruire al meglio delle strutture esistenti nel campo dell’assistenza. Un’operazione estremamente complessa portata avanti dai ministri del Tesoro federale e statali con provvedimenti a medio termine, per ora previsti per una durata di circa sei mesi. Ieri pomeriggio si è tenuta anche una nuova riunione del Consiglio nazionale ed è stata decisa un’ ulteriore correzione di rotta con il divieto di avere più di due persone insieme all’aperto ed è stato rivolto un preciso invito a rimanere a casa il più possibile (uscire solo per recarsi ai supermercati e per appuntamenti medici), consigliando inoltre l’auto-isolamento in casa degli ultrasettantenni. Il tutto mentre sono cominciati ad arrivare primi importanti e benauguranti segnali dal fronte dei contagi che continuano ad aumentare, ma, secondo quanto hanno fatto rilevare sia Morrison che Hunt, con minore intensità rispetto ad una settimana fa. Troppo presto per celebrare o illudersi, ma qualsiasi piccolissima buona notizia in questo periodo è un toccasana per il morale ed un invito alla popolazione di continuare a seguire con rigore (purtroppo le eccezioni continuano incredibilmente a non mancare) le direttive di rimanere quanto più possibile a casa e rispettare, quando è indispensabile uscire, le misure di ‘distanza sociale’: comunque i casi giornalieri di contagio sono scesi dal 25-30 per cento di una settimana fa al 9 per cento. Siamo alla fase tre del processo di accettazione di una drammatica esperienza che di giorno in giorno diventa più reale con i numeri dei ricoveri in ospedale e dei decessi che salgono assieme alle restrizioni: un’accettazione non ancora raggiunta, basti vedere quello che continua a succedere su alcune spiagge e nei parchi nonostante gli avvisi e le spiegazioni sulle possibili tragiche conseguenze. La prima fase del lungo ‘processo del lutto’ (l’elaborazione cioè di una perdita, il più delle volte affettiva, ma anche di certezze talvolta legate a calamità naturali o atti di terrorismo), secondo la teoria del 1969 dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kubler-Ross, è quella della negazione perché la nuova realtà è intollerabile. Quindi, in questo caso, poco più di un’alzata generale di spalle, immaginando il coronavirus giusto un altro tipo di infezione, un po’ più grave di un raffreddore che la maggior parte degli australiani avrebbero superato quasi senza accorgesene. Perlomeno dall’80 per cento della popolazione, come se l’altro 20 per cento non contasse molto. Tanto, dicevano i più (alcuni commentatori e giornalisti compresi,) il rischio riguardava soprattutto gli anziani e coloro che avevano già qualche tipo di problema medico, quindi assurdamente ‘problema quasi non problema’ come se quel 20 per cento fosse un’accettabile inevitabilità. Piena libertà quindi di continuare a vivere normalmente, con più di qualcuno che si faceva riprendere spensierato all’aeroporto mentre partiva per la sua programmata vacanza all’estero. Non era gennaio, ma già marzo. Poi la seconda fase, i primi provvedimenti, i primi segnali concreti che forse non può essere tutto come prima e inizia il patteggiamento con la realtà in un misto di rabbia (che stiamo vivendo in questa terza fase) che fa da prologo alla ‘depressione’ (quarta fase), ad una resa e senso di impotenza che eventualmente porta all’accettazione, con lo sguardo che comincia a rivolgersi al futuro, specie se il tutto sarà accompagnato da risultati concreti di contenimento del virus e di una graduale ripresa della vita che conoscevamo.