Si avvicina l’Australia Day e, con esso, tutte le polemiche che  dividono l’opinione pubblica. Una celebrazione che rimane motivo di confronto, coinvolgendo i leader politici e le comunità locali. Ad accendere il dibattito, la proposta del leader dell’opposizione, Peter Dutton, di fissare permanentemente questa data come festa nazionale, in un palese tentativo di contrastare le iniziative di alcuni  comunali di spostare le cerimonie di cittadinanza.

Ma dietro questa battaglia politica che si trascina ogni volta che si avvicina questo appuntamento si cela forse una domanda più profonda: cosa rappresenta realmente l’Australia Day per gli australiani in questo momento storico?

Tra coloro che vivono il 26 gennaio come un momento di orgoglio nazionale, un giorno dove celebrare la diversità e il successo della società multiculturale australiana, ha preso piede, soprattutto in questi ultimi anni, la tendenza a inasprire queste tematiche, quasi a voler contrastare il cosiddetto “wokismo” progressista.

Va da sé quindi quanto detto in precedenza, ovvero con il dibattito sull’Australia Day posto in questa maniera, senza verità assolute, o forse, peggio ancora, con verità che ognuna delle parti ritiene assolute, il risultato finale è restare bloccati nelle proprie posizioni e proseguire in una dinamica di polarizzazione che, alla fine dei conti, non sembra possa giovare a nessuno.

Mutatis mutandis, ma neanche troppo; visto l’argomento, possiamo dire che in fondo, forse anche in ragione della risposta delle urne, a ben pochi sembra aver giovato anche il referendum per la Voce, nonostante l’impegno profuso, secondo alcuni in maniera sin troppo intensa, dal primo ministro Anthony Albanese.

Divisività e confusione nel messaggio: queste sono state molte delle critiche mosse a quei tempi nei confronti del Primo ministro, ma le stesse, a onor di verità, possono oggi pero essere espresse anche nei confronti di Dutton, dopo questa sua levata di scudi a difesa dell’importanza dell’Australia Day.

Appellarsi a valori condivisi, come ha fatto il leader dell’opposizione, stimolare un dialogo basato su strutture ideologiche e valoriali che, a detta di Dutton, dovrebbero unire la comunità, potrebbe non bastare, anche perché tutto ciò lascia troppo spesso inevase e irrisolte le legittime aspettative di chi considera la data del 26 gennaio un appuntamento legato a un momento tragico della storia d’Australia, in particolar modo per i popoli delle Prime nazioni.

Si può, o meglio, forse si dovrebbe, riflettere sulla storia senza ‘cavalcare’ agende progressiste, invocare boicottaggi culturali o estremizzare il messaggio opposto solo ed esclusivamente ai fini di un immediato consenso. Così facendo, con un approfondimento nel merito che auspica una sensibilità di metodo, forse si sarebbe in grado di rispettare chi a questa giornata associa lutto, dolore, perdita di identità, cultura e sovranità territoriale.

Negare loro questa legittima immersione nel percorso di un doloroso vissuto della storia personale, familiare, di comunità, non rende tra l’altro onore neanche a chi vuole consacrare questa data come una giornata di festa per celebrare il Paese che si è venuto a formare in poco più di due secoli dopo l’arrivo della Prima flotta britannica.

Invece, non sembra ci sia più spazio o tempo per approfondimenti e analisi che riescano ad alzare il tono del dibattito e andare oltre l’immediato tornaconto, ideologico o, come detto, di consenso politico elettorale.

Tutto è politica – saremmo certamente troppo ingenui nell’affermare il contrario – e su un non sempre apprezzato attivismo delle amministrazioni locali e su una certa ambiguità nella risposta del governo federale sul tema forse Dutton sta cercando di mettere un punto e accendere i riflettori, invocando, come detto, un senso di unità nazionale.

Peter Dutton ha promesso, in caso di vittoria alle urne nelle elezioni federali di quest’anno, di rendere obbligatorio, per i Consigli comunali, tenere cerimonie di cittadinanza il 26 gennaio, con una legge promulgata entro i primi 100 giorni di un eventuale governo di coalizione. 

Ma se, come da premesse di ognuno che si dice portatore di una verità assoluta, l’Australia Day dovrebbe essere un momento di unità e orgoglio nazionale, le divisioni attuali dimostrano quanto sia difficile conciliare le diverse prospettive in campo. Legiferare per fissare la data potrebbe offrire un qualche livello di certezza, ma rischia di ignorare le legittime preoccupazioni di molte comunità.

La vera sfida è trasformare questa controversia in un’opportunità di dialogo e comprensione reciproco. Un approccio inclusivo, che consideri sia l’importanza storica del 26 gennaio sia il significato per le popolazioni indigene, potrebbe rappresentare un passo avanti verso un Australia Day che tutti possano sentire davvero come proprio. Fino ad allora, il dibattito continuerà a riflettere le tensioni irrisolte di un Paese che cerca di definire la propria identità nazionale in un contesto sempre più diversificato e polarizzato.