Le elezioni presidenziali americane hanno mostrato ancora una volta l’intensità e la complessità della politica negli Stati Uniti, rivelando le profonde divisioni ma anche i punti dove cittadini ed elettori trovano unità di intenti. La vittoria di Donald Trump rappresenta un chiaro segnale sulle priorità che l’elettorato ritiene fondamentali per il futuro degli USA. Tra sicurezza, economia e valori sociali, la scelta degli elettori sembra indirizzare il Paese verso un cammino che mette al centro la stabilità economica e il benessere interno.

La sfida di Trump, ora, sarà quella di ricucire le divisioni interne e di dare risposte concrete ai milioni di americani che cercano soluzioni reali e tangibili. Le aspettative sono alte, e hanno a che fare anche con il ruolo che Trump giocherà nell’altrettanto complesso scacchiere delle relazioni internazionali.

Non sono mancate, in queste ore, tutta una serie di commenti, valutazioni e opinioni, sia sul ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ma sia, soprattutto, su quale sarà il futuro dei rapporti tra Australia e Stati Uniti dal prossimo 20 gennaio, giorno in cui il presidente eletto e il suo vice JD Vance presteranno giuramento e si insedieranno, ufficialmente, alla guida del Paese.

Forse è prematuro delineare, nel dettaglio, cosa cambierà, posto che qualcosa certamente cambierà, nelle dinamiche economiche, commerciali ma anche politiche e strategiche, tra i due Paesi.

Albanese ha rassicurato tutti, nonostante nel passato abbia espresso alcune considerazioni non certamente positive sul neo eletto presidente statunitense, a poche ore dalla conferma dei risultati ha chiamato Trump per congratularsi della vittoria sottolineando (altro articolo a pagina 12) quanto importante e solida sia la relazione tra Australia e Stati Uniti.

Donald Trump ha dimostrato, anche nel corso del suo precedente mandato alla Casa Bianca, di essere particolarmente volubile e di avere un approccio alla politica non certamente ortodosso, e possiamo attenderci altrettanta poca ortodossia nel suo ritorno alla guida degli Stati Uniti.

Cosa questo voglia significare è, come detto, ancora presto per prevederlo ma da più parti, soprattutto da chi, come Scott Morrison e Malcolm Turnbull, da primo ministro in carica ha avuto modo di confrontarsi con Trump, arrivano segnali abbastanza chiari: le caratteristiche personali del miliardario che diventerà, da gennaio in poi, nuovamente uno degli uomini più potenti della terra, prevedono che, oltre a inevitabili e strutturati legami politici e diplomatici, bisognerà trovare una connessione umana molto forte per entrare in sintonia con l’uomo, oltre che con il Presidente.

Poi certo, al netto dell’instaurarsi di auspicabili buoni rapporti personali e diplomatici, le questioni aperte restano tante, e afferiscono a una dinamica di relazioni già consolidate sulla cui tenuta non mancano punti interrogativi, quali, in primis, l’accordo di partenariato strategico AUKUS, e rapporti commerciali, direttamente con gli Stati Uniti e, indirettamente, con il resto del mondo.

Non è una novità, ed è stata materia su cui Trump ha giocato molto della sua campagna elettorale, la visione di Make America Great Again del tycoon passerà, nuovamente, attraverso l’imposizione di gravosi dazi sull’importazione di prodotti negli Stati Uniti. Politiche commerciali molto stringenti che hanno nella Cina l’obiettivo principale ma che, sembra inevitabile, potrebbero a quel punto avere una ricaduta indiretta anche nella bilancia commerciale tra Australia e Cina.

In questo senso per Albanese si presenta un impegno non da poco, anche perché, come abbiamo spesso sottolineato, gli equilibri tra Australia e Cina stanno trovando soltanto negli ultimi mesi una struttura finalmente più solida, dopo mesi e anni difficili dell’immediato post pandemia.

Relazioni con Pechino che stanno migliorando, almeno dal punto di vista dei rapporti commerciali ma che invece restano ancora molto instabili per tutto ciò che concerne la sicurezza dell’area dell’Indo Pacifico, con le dichiarate ed evidenti intenzioni espansionistiche cinesi.

In tal senso l’accordo AUKUS, nonostante incertezze e dubbi, potrebbe avere senso che restasse in piedi, proprio in considerazione dell’impronta particolarmente assertiva che Donald Trump intenderà esercitare rispetto al dominio politico, economico e militare della Cina.

Il futuro nuovo inquilino della Casa Bianca, però, quando si tratta di difesa si è espresso in maniera molto chiara, la percentuale di impegno per la difesa dovrà essere adeguata, corrispondendo almeno a quanto gli Stati Uniti imputano a quelle voci di spesa, ovvero almeno il 3% del Prodotto interno lordo.

L’Australia, con un dato leggermente più in alto rispetto a quanto deciso dai ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, quest’anno si è impegnata a raggiungere quota 2.4% di spesa per la Difesa, in rapporto al Prodotto interno di lordo, entro il 2033-34.

Sarà sufficiente tutto questo per convincere Trump che in Australia, quando si tratta di difesa e armamenti, la si pensa come lui? O forse proprio l’accordo AUKUS, per quanto proiettato in una visione a lungo termine, potrebbe aggiungere materiale per dare a Trump una chiara idea di solida alleanza tra Stati Uniti e Australia?

Vedremo, certo è che Trump già in queste sue prime ore da presidente eletto si sta spendendo molto per rappresentare sé stesso al mondo come un ‘potenziale’ pacificatore, parlando con Zelensky, vedendosi aprire le porte dall’amico Putin per un primo colloquio, e lasciando intuire, non direttamente dalle sue parole, ma da membri del suo staff, che la pace in Ucraina potrebbe essere vicina, pena la concessione di territori all’invasore russo.

In questa ottica suona complicato pensare che possa mandare all’aria un accordo che ha, in una triangolazione con Paesi amici, l’intento di deterrenza e di consolidamento della presenza statunitense in un’area strategica come quella del Pacifico e del Mar Cinese Meridionale.

Ad aggiungere un argomento di riflessione, l’accordo AUKUS ha uno sviluppo decisamente di lungo periodo, con i primi sottomarini a propulsione nucleare costruiti in Australia che dovrebbero essere consegnati alla Marina reale australiana non prima del 2040, Donald J. Trump, a quel punto, avrà circa 94anni e, salvo aiuti della Neuralink dell’amico e sodale Elon Musk, sarà alquanto complicato averlo ancora alla guida del Paese più potente del mondo.

A parte visioni così futuristiche, la partita della relazione tra Australia e Stati Uniti si gioca ora e, tra l’altro, per Albanese, fatte salve le ovvie differenze di contesto sociale, politico ed economico, sarà anche importante analizzare con attenzione temi, punti e obiettivi su cui aveva puntato la campagna elettorale, rivelatasi fallimentare, dei democratici americani.

Dal 20 gennaio del prossimo anno, giorno dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, alle elezioni federali in Australia, a quel punto non passerà molto tempo. Vedremo se l’onda lunga del successo dei conservatori statunitensi arriverà anche sulle coste australiane.