Quando nel 1997 Dario Fo ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, la notizia gli arrivò in modo del tutto inaspettato: era in auto, diretto da Milano a Roma insieme ad Ambra Angiolini, per una trasmissione della Rai. Fu un cartello, con la scritta “Hai vinto il Nobel”, a dargli l’annuncio. Ma dietro l’apparente leggerezza di quella scena si nascondeva un’ammissione che lo stesso Fo non tardò a fare: quel Nobel, forse, non era solo suo.
Lo sostengono con decisione il ricercatore Malcolm Angelucci e il professore Stephen Kolsky, autori del libro, Franca Rame ha vinto il Nobel! – Due vite, una collaborazione, presentato il 22 maggio all’Università di Melbourne. Per i due studiosi, l’Accademia di Svezia, nel premiare la genialità di Fo, ha commesso un’omissione storica: ha dimenticato Franca Rame, attrice, autrice e compagna di vita, ma soprattutto collaboratrice essenziale nella creazione di quell’universo teatrale così dirompente.
Rame non fu soltanto l’interprete delle opere di Fo. Ne fu co-autrice, ideatrice, spesso l’anima critica e organizzativa. Un talento drammaturgico pari al carisma scenico che, però, è stato a lungo messo ai margini o riconosciuto solo in modo parziale, se non addirittura problematico.
Il libro affronta una questione culturale profonda: il modo in cui la narrazione dominante ha costruito Fo come genio isolato, centrando su di lui un intero immaginario, anche grazie a una rappresentazione condivisa dagli stessi Fo e Rame e mai seriamente messa in discussione dalla critica. Ma dietro la leggenda del ‘teatro di Dario Fo’, c’è una rete di collaborazione che è stata cruciale quanto invisibile.
Durante l’incontro all’Università di Melbourne, Angelucci e Kolsky hanno ricostruito con precisione il contesto creativo e politico in cui la coppia ha operato, soprattutto tra la fine degli anni Sessanta e Settanta. Un periodo segnato da tensioni ideologiche, lotte studentesche, femminismo nascente e la deriva violenta di alcune frange dell’estrema sinistra. In questo clima, Fo e Rame non si limitano a commentare la realtà: la attraversano, la sfidano, la mettono in scena. “Ma – come sottolinea Angelucci – il teatro di Fo fatica a rappresentare tutta la complessità del tempo. È Rame, con la sua consapevolezza politica e il suo radicamento pratico, a coglierne sfumature decisive”.
Kolsky insiste su un punto fondamentale: “Rame ha insegnato a Fo che il copione non è sacro, che si può riscrivere, cambiare, improvvisare. Portava sul tavolo competenze, intuizioni, revisioni. Non era una musa: era parte del motore creativo”.
A confermarlo, anche gli scambi di bozze, le modifiche continue, le ore passate davanti al computer, le discussioni sulle scene che, secondo lei, non funzionavano a teatro. “È difficile – osserva Angelucci – stabilire con chiarezza chi abbia fatto cosa. Sono due dimensioni intrecciate, inseparabili”.
Niente a che vedere, insomma, con il mito del genio solitario. Fo e Rame lavoravano in un ambiente non gerarchico, dove la creazione era condivisa e l’autorialità sfumata. Un teatro che nasceva dalla contestazione e che, nella contestazione, trovava il suo linguaggio.
E allora perché, si chiede il moderatore Andrea Rizzi, è stato così difficile riconoscere il ruolo fondamentale di Rame? Kolsky risponde con un’immagine illuminante: “Fo esce dalla stanza con un foglio e dice: ‘Guarda cosa ho scritto’. Ma la scena non finisce lì. Rame prende quel foglio, lo rilegge, lo riscrive, lo modifica, lo prova. Eppure, la narrazione premia sempre l’autore, quello visibile, quello che firma”.
Una rimozione che diventa ancora più evidente se si considera la posizione complessa di Rame rispetto al femminismo. Non amava definirsi femminista: il suo approccio era pragmatico, legato alla quotidianità del lavoro e del palcoscenico. Mentre Fo si muoveva sul piano teorico, lei preferiva l’azione concreta. Eppure, anche questa ambivalenza contribuisce a rendere il loro sodalizio artistico un oggetto di studio sfaccettato e tutt’altro che concluso.
“Dare a Rame ciò che spetta a Rame”: è questo, in fondo, lo scopo dichiarato del libro. A dieci anni dalla sua scomparsa, la figura di Franca Rame chiede di essere riletta, riconosciuta, restituita al suo posto nella storia del teatro contemporaneo. In un’epoca che invita a ripensare le relazioni tra i generi, e le narrazioni che le accompagnano.