C’è un momento, per chi vive lontano dall’Italia, in cui la nostalgia smette di essere un sentimento astratto e prende il peso di una zavorra, colpendo come un pugno sullo stomaco. È un odore familiare che riaffiora all’improvviso mentre si sta facendo altro, un sapore che riporta indietro senza chiedere permesso. A volte basta una semplice pietanza per ricostruire il calore di casa meglio di qualsiasi fotografia o racconto. Perché la cucina italiana non è mai stata soltanto una questione di gusto: è un patrimonio di emozioni che lega al Paese d’origine con un solo morso.

Le polpette al sugo non sono semplicemente un secondo piatto, ma il ricordo della nonna che controlla la fiamma, assaggia, aggiusta e lascia andare il sugo per ore, mentre tutta la casa si riempie di quell’odore inconfondibile, a metà tra il dolce e il pungente. La carbonara - rigorosamente senza panna - non è solo una delle paste più amate, ma il terreno di competizione di intere generazioni di adolescenti romani che, nelle serate d’inverno, si sfidano a chi riesce a farla “come si deve” (naturalmente senza strapazzare l’uovo). E poi la pizza, o meglio le pizze, perché ridurla a una sola versione sarebbe una semplificazione ingiusta: quella alta e morbida, la classica napoletana, e quella sottile e croccante, romana o genovese. In questo continuo alternarsi di regole non scritte e tanta creatività, la cucina del Belpaese racconta molto più di ciò che finisce nel piatto.

È questo patrimonio invisibile, fatto di gesti ripetuti, rituali familiari, che lo scorso mercoledì 10 dicembre ha ottenuto un riconoscimento ufficiale. A Nuova Delhi, il Comitato intergovernativo dell’Unesco ha approvato l’iscrizione della cucina italiana nella lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Non un piatto simbolo o una ricetta specifica, ma un intero sistema culturale: un modo di cucinare, di stare a tavola, di riconoscersi attraverso il cibo.

Nelle motivazioni ufficiali, l’Unesco parla di “una miscela culturale e sociale di tradizioni […], un modo per prendersi cura di se stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali”. Parole che restituiscono la profondità di una pratica quotidiana capace di attraversare secoli e confini geografici.

Si tratta di un passaggio storico. Finora l’organizzazione aveva riconosciuto pratiche gastronomiche specifiche, ma mai l’intero patrimonio culinario di un Paese. Questa volta, invece, il riconoscimento abbraccia l’insieme: la quotidianità, i momenti di festa, le infinite varianti regionali e familiari.

La candidatura è il risultato di un lavoro lungo e articolato. Il dossier, intitolato La cucina italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale, è stato curato dall’Ufficio Unesco del Ministero della Cultura e redatto dal giurista Pier Luigi Petrillo, con il coordinamento scientifico dello storico dell’alimentazione Massimo Montanari. A sostenerlo, un fronte ampio che va dal Masaf al Ministero della Cultura, affiancati da realtà che da anni studiano e custodiscono con cura questo inestimabile tesoro.

Nel cuore del dossier c’è un concetto: la “cucina degli affetti”. Una pratica fatta di gesti tramandati, attenzione alla stagionalità, rispetto per le materie prime e creatività nell’uso degli avanzi. Un mosaico di cucine locali e comunitarie che dialogano tra loro e con il mondo. Un racconto che parla di miseria, improvvisazione, migrazioni e ricostruzioni continue: i pomodori arrivati dalle Americhe, la pasta secca passata dal Medio Oriente, le contaminazioni nate nelle comunità italiane all’estero. Ma il filo conduttore di questa narrazione sono un ingegno e una maestria tutti orogliosamente italiani. 

Con questo voto, l’Unesco non assegna un marchio da spendere sul mercato, né una patente di superiorità culturale. Riconosce piuttosto un impegno: l’Italia dovrà lavorare insieme alle comunità che tengono viva questa pratica a partire dalle famiglie, includendo anche cuochi, produttori e associazioni. Significa, sul piano concreto, intensificare la battaglia contro tutto ciò che si spaccia per italiano senza averne titolo.

Un tema centrale soprattutto per chi, la cucina italiana, la porta avanti lontano dai confini nazionali. È il caso del Coordinamento dei Ristoranti Italiani Autentici all’Estero (RIAE), nato nell’ottobre 2024 in seno a Fipe-Confcommercio per costruire una rete di ristoratori italiani attivi nel mondo con l’obiettivo di promuovere autenticità e qualità, contrastando le imitazioni. “Siamo orgogliosi di questa dichiarazione, perché fa riferimento all’ospitalità e alle nostre tradizioni”, sottolinea Mirko Kusturin, membro del Consiglio direttivo di RIAE. “La domenica, che tu sia in Sicilia o in Friuli, il pranzo è un momento per stare tutti assieme. Può cambiare l’ora, ma quel pranzo ha, per noi , un valore culturale incredibile”.

Per RIAE, l’autenticità non è solo una questione di ricette, ma di esperienza complessiva. “Quando entriamo in un ristorante italiano all’estero, ci vogliamo sentire a casa, ed è questo che fa la differenza. Un’esperienza culinaria che va al di là del cibo e che parla di atmosfera, di gentilezza, di materie prime che rispettino la stagionalità”, spiega Kusturin. 

Dal fronte istituzionale, il riconoscimento viene salutato come motivo di orgoglio per le comunità italiane nel mondo. “Non è solo un tributo a piatti straordinari, ma il riconoscimento di un modo di vivere che mette al centro la famiglia, la convivialità e il rispetto della terra”, afferma il deputato del Partito democratico, eletto nella circoscrizione Estero AAOA, Nicola Carè. “È una vera lingua comune che unisce l’Italia dal nord al sud e che continua a vivere e a rinnovarsi anche grazie al contributo quotidiano degli italiani all’estero”. Un risultato che, aggiunge Carè, “premia il lavoro di agricoltori, artigiani, ristoratori e famiglie che hanno custodito e tramandato saperi antichi”, rappresentando anche “una straordinaria leva di sviluppo per i territori, per il turismo e per i giovani”.

Un’eco che arriva forte anche in Australia. La console generale per il Victoria e la Tasmania, Chiara Mauri, sottolinea come l’iscrizione della cucina italiana nella lista Unesco sia “il frutto di un lavoro sinergico di istituzioni, associazioni e operatori del mondo produttivo” e un riconoscimento del ruolo culturale dell’Italia nel mondo. I numeri parlano chiaro: nel 2024 l’export agroalimentare italiano ha raggiunto il record di 68 miliardi di euro, con una crescita superiore all’8%, mentre nei primi otto mesi del 2025 si registra un ulteriore aumento del 6%. “Dati – osserva la Console – che rendono evidente l’influenza e l’attrattività che il nostro Paese esercita anche in aree geograficamente lontane come l’Australia”.

Dal consolato sottolineano il ruolo fondamentale della Farnesina e della rete diplomatico-consolare italiana all’estero al raggiungimento di questo storico traguardo, “grazie ad un lavoro costante portato avanti con coerenza in ogni contesto geografico”. Melbourne ne è un esempio tangibile: in occasione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, è stato organizzato un ricchissimo programma di iniziative di promozione culturale sviluppatosi nel corso di ben tre mesi.