Chiudiamo un anno non semplice, con una condizione di incertezza e di scarsa fiducia che, sotto diversi punti di vista, ha messo in difficoltà l’intero sistema economico e produttivo del Paese.
Nel 2024 l’Australia si è, infatti, trovata a un punto di svolta molto critico. Dopo anni di sostanziale stagnazione economica e polarizzazione politica, il Paese si deve confrontare con sfide globali e interne che richiedono coraggiosi impegni politici e riforme strutturali. Con le elezioni federali ormai imminenti, la necessità di affrontare queste sfide con una leadership solida non è mai stata così urgente. Tuttavia, lo scenario attuale offre pochi segnali incoraggianti: il Paese si trova intrappolato in un ciclo di deficit di bilancio, bassa produttività, crisi del costo della vita e politiche che sembrano mancare di una visione strategica.
L’Australia vive una crisi che ha radici profonde. Il periodo di crescita economica, che ha visto il Paese distinguersi per riforme strutturali, surplus di bilancio e conti in ordine, è ormai lontano. La crescita economica sostenuta da primi ministri come Bob Hawke, Paul Keating e John Howard ha lasciato infatti spazio a un declino marcato, alimentato da scelte politiche inadeguate, da spesa pubblica sempre più impattante e da una dipendenza dai guadagni fiscali derivanti dal boom delle materie prime.
Il risultato è un’economia bloccata: produttività in calo, debito pubblico in aumento e un sistema fiscale troppo dipendente dalle tasse, che iniziano a far sentire i propri effetti negativi su persone fisiche e piccole e medie imprese. Questa sostanziale condizione di stagnazione è accompagnata da un malessere sociale crescente, con il costo della vita che mette in difficoltà molte famiglie, una crisi abitativa che penalizza le giovani generazioni ed evitabili tensioni sociali, derivate da lontani tamburi di guerra, che si ripercuotono nelle nostre strade.
Inoltre, almeno finora, le promesse e i piani verso una transizione energetica si sono rivelati, almeno dal punto di vista concreto e delle ricadute economiche positive, mere illusioni, e la transizione energetica è ostacolata da politiche contraddittorie.
Chiudiamo questo 2024 e ci avviciniamo a un importante anno di elezioni, un appuntamento con le urne che potrebbe rappresentare un punto di svolta, ma sono in molti a temere che si stia correndo il rischio di un’altra, l’ennesima, occasione mancata.
A giudicare, infatti, da quello che si è visto negli ultimi mesi, con un’aria di campagna elettorale già in corso, i due principali protagonisti dell’agone politico, il governo laburista di Anthony Albanese e la Coalizione di opposizione guidata da Peter Dutton, sono sembrati incapaci di proporre una visione di futuro del Paese ambiziosa e una risposta concreta e applicabile alle necessità più urgenti.
Ad aggiungere elementi di incertezza, la possibilità di un governo di minoranza sostiene ulteriormente le posizioni dei più pessimisti, con la minaccia evidente di vedere paralizzati i processi decisionali.
Quello che sembra mancare sul piatto dell’offerta politica è una strategia chiara per affrontare le sfide strutturali. I laburisti hanno deciso di investire e puntare in settori come le energie rinnovabili, l’istruzione nella prima infanzia e l’assistenza agli anziani, ma queste politiche, per quanto funzionali all’idea di Paese di questo governo, forse peccano di una visione e di una complessiva coerenza.
Dall’altro lato, però, dalla Coalizione non c’è stato ancora nulla, per quanto riguarda un convincente piano che riesca ad affrontare i problemi fiscali e rilanciare la produttività del Paese e, parlando di energia, la declinazione di Peter Dutton del progetto sul nucleare non sembra avere una vera forza propulsiva che possa generare un consenso schiacciante al prossimo voto.
Una delle questioni più urgenti resta però il calo della produttività, una minaccia diretta per il benessere economico delle future generazioni e un chiaro rallentamento della nostra economia. La produttività stagnante riflette il fallimento di modernizzare l’economia e di adottare riforme, in particolare per quello che riguarda le relazioni industriali, coraggiose e di visione. C’è poi il solito problema dello sviluppo e dell’investimento in settori strategici come quello dell’innovazione e di settori ad alta specializzazione, sui quali impatta anche una finora molto blanda capacità, da parte del governo laburista, di gestire le politiche migratorie. La richiesta di forza lavoro specializzata, da una parte, è del tutto evidente in molti ambiti, ma la capacità di attrarre competenze e professionalità e di garantire loro un futuro concreto non sembra stare al passo con quanto sarebbe necessario mettere in campo. Far tornare l’Australia a essere un posto dove un cittadino di un altro Paese possa immaginare di costruirsi un futuro, passa infatti da una visione dell’immigrazione che sia basata non soltanto sullo snellimento delle procedure di ottenimento dei visti, ma anche su un percorso concreto che possa condurre, in tempi chiari e precisi, all’ottenimento di una residenza permanente e alla cittadinanza australiana.
Ma, tornando all’economia e all’attualità, con la presentazione dell’aggiornamento economico di metà anno da parte del Tesoriere Jim Chalmers, resta chiaro che il debito pubblico sia un altro problema cruciale. Dopo anni di surplus, il bilancio federale è tornato in deficit, con proiezioni di debiti che supereranno i mille miliardi di dollari nei prossimi anni. Questa situazione è aggravata da spese pubbliche fuori controllo, spesso giustificate come investimenti futuri ma prive di trasparenza e lontane da un benché minimo dibattito politico. L’esempio delle spese “fuori bilancio” – come il tema dei debiti per gli studenti universitari e tutti i progetti legati alle fonti energetiche alternative – sembra evidenziare un approccio di natura contabile che punti ad aggirare i problemi strutturali, a procrastinarli, anziché affrontarli.
La politica energetica del governo Albanese ci offre una chiara rappresentazione delle contraddizioni del sistema. Da un lato, il governo punta su una transizione verso le energie rinnovabili; dall’altro, gli aiuti nelle bollette continuano a mascherare il vero costo dell’energia, ostacolando una transizione efficace e sostenibile. Se i consumatori pagassero il prezzo reale dell’energia, le tariffe sarebbero significativamente più alte, come sottolineano gli economisti. Ma affrontare questa realtà richiede scelte impopolari che lapolitica, troppo attenta al successivo appuntamento elettorale, sembra sia molto riluttare a prendere.
L’abbiamo detto spesso e non siamo certo soli nell’affermare ciò, la necessaria transizione energetica deve bilanciare l’obiettivo di una decarbonizzazione con la necessità di garantire sicurezza energetica e prezzi accessibili. Questo richiede investimenti in tecnologie innovative, una revisione delle politiche di sussidio e una pianificazione a lungo termine che tenga conto delle esigenze economiche e ambientali. Al netto dei dettagli e di molte altre considerazioni, siamo chiaramente di fronte a scelte importanti, bisogna riprendere vigore e uscire da questa condizione di stagnazione, ci vuole visione ma è necessario, soprattutto, un nuovo patto di fiducia tra cittadini e governo. Attendersi cambiamenti dall’alto può essere deludente, ma richiedere una leadership forte e illuminata sembra essere doveroso.