Un nuovo esame del sangue è capace di cogliere con un tasso del 90% di accuratezza se alcuni segnali come la perdita di memoria siano dovuta all’Alzheimer. Attualmente i neurologi e altri specialisti della memoria diagnosticano correttamente l’Alzheimer nel 73% dei casi testati. Una parte dell’esame del sangue consiste nella misurazione del plasma fosforilato tau 217, o p-tau217, uno dei numerosi biomarcatori del sangue che gli scienziati stanno valutando per l’uso nella diagnosi di lieve deterioramento cognitivo e morbo di Alzheimer in fase iniziale. Il test misura la proteina tau 217, che è un indicatore della patologia. Lo studio ha coinvolto 1.213 persone con lieve perdita di memoria e di questi, 515 sono stati valutati nell’assistenza primaria e 698 in una clinica specialistica della memoria. I pazienti sono stati sottoposti al test del sangue e i risultati diagnostici sono stati confrontati con quanto emerso dal tradizionale test del liquido cerebrospinale. Come detto, l’affidabilità dell’esame del sangue è risultata essere di circa il 90%. L’accuratezza dell’esame è stata anche confrontata con le valutazioni dei medici, effettuate prima che potessero accedere ai risultati dell’esame del sangue o dell’esame del liquido cerebrospinale. In questo confronto, i neurologi e altri specialisti della memoria hanno diagnosticato correttamente l’Alzheimer nel 73% dei casi, mentre i medici di base hanno raggiunto un tasso di accuratezza del 61%. Ciò indica il potenziale miglioramento nella diagnosi con l’adozione di questo esame del sangue negli ambienti sanitari. Secondo i ricercatori, la semplicità e l’affidabilità di questo test del sangue rappresentano un significativo passo in avanti nella diagnosi dell’Alzheimer, fornendo un metodo efficace per escludere la malattia nelle cure primarie. Un aspetto fondamentale perché la perdita di memoria può derivare anche da altre condizioni curabili come la depressione o la stanchezza cronica. I prossimi passi includono la definizione di chiare linee guida cliniche per l’uso dell’esame del sangue nell’assistenza sanitaria.

La connessione con il diabete di tipo 2 

Le persone affette da diabete di tipo 2 hanno una maggiore probabilità di sviluppare la malattia di Alzheimer. Lo rivela una nuova ricerca, condotta sui topi. Lo studio offre notevoli spunti per comprendere cosa succeda a livello molecolare nelle persone diabetiche per favorire l’insorgere dell’Alzheimer. La ricerca si aggiunge alle precedenti indagini sul legame tra il diabete di tipo 2 e la malattia di Alzheimer, che alcuni scienziati hanno definito “diabete di tipo 3”. I risultati suggeriscono che dovrebbe essere possibile ridurre il rischio di Alzheimer mantenendo il diabete ben controllato e adottando uno stile di vita che ne impedisca l’insorgenza. Si pensa che il diabete e la malattia di Alzheimer siano fortemente legati e che adottando misure preventive o di miglioramento del diabete sia possibile prevenire o almeno rallentare in modo significativo la progressione dei sintomi della demenza nella malattia di Alzheimer. Il diabete e l’Alzheimer sono due dei problemi di salute in più rapida crescita a livello mondiale. 

Gli uomini di mezza età con la pancia rischiano di più

Negli uomini di mezza età con familiarità per la malattia di Alzheimer, la quantità eccessiva di grasso negli organi addominali è associata a un rischio maggiore di sperimentare declino cognitivo. Un team di studiosi ha esaminato le informazioni relative a 204 persone, discendenti da individui con demenza di Alzheimer. I partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica per valutare i livelli di grasso e i depositi lipidici nel pancreas, nel fegato e nell’addome. Nei maschi di mezza età ad alto rischio di Alzheimer abbiamo notato un’associazione significativa tra la presenza di grasso addominale e il rischio di sviluppare demenza. Il legame non è emerso nelle partecipanti di genere femminile. L’obesità rappresenta un fattore di rischio per il funzionamento cognitivo. In questo lavoro, il gruppo di ricerca ha anche messo in discussione l’uso convenzionale dell’indice di massa corporea (BMI) come misura principale per valutare i rischi cognitivi legati all’obesità. I risultati indicano correlazioni più forti rispetto a quanto osservato finora. I depositi di grasso addominale potrebbero pertanto costituire un fattore di rischio più indicativo per il rischio di demenza. Questi dati aprono nuove strade per interventi mirati e ulteriori esplorazioni di approcci specifici, distinti in base al genere, per comprendere in maniera più precisa il collegamento tra il grasso addominale e la salute del cervello.

Bizzarri sintomi visivi una possibile spia

L’atrofia corticale posteriore o Apc, che comprende un’enorme varietà di sintomi visuo-spaziali, sembra essere uno dei campanelli d’allarme della malattia di Alzheimer. A rivelarlo uno studio i cui risultati hanno mostrato che i sintomi si manifestano fino al 10% dei casi di malattia di Alzheimer. Gli scienziati, che per lo studio hanno impiegato i dati di oltre mille pazienti in 36 siti di 16 Paesi, hanno scoperto che l’atrofia corticale posteriore predice in modo preponderante l’Alzheimer. Circa il 94% dei pazienti con Apc presentava una patologia di Alzheimer, mentre il restante 6% era affetto da condizioni come la malattia dei corpi di Lewy e la degenerazione lobare frontotemporale. Al contrario, altri studi hanno dimostrato che il 70% dei pazienti con perdita di memoria presentava una patologia tipica della malattia di Alzheimer. A differenza dei problemi di memoria, i pazienti con Apc hanno difficoltà a definire le distanze, a distinguere tra oggetti in movimento e oggetti fermi e a completare compiti come la scrittura e il recupero di un oggetto caduto, nonostante un esame oculistico normale. La maggior parte dei pazienti affetti da Apc presenta all’inizio una cognizione normale, ma al momento della prima visita diagnostica, in media 3,8 anni dopo l’inizio dei sintomi, è stata riscontrata una demenza lieve o moderata con deficit identificati nella memoria, nella funzione esecutiva, nel comportamento e nel linguaggio. Al momento della diagnosi, il 61% presentava disprassia costruttiva, ovvero incapacità di copiare o costruire diagrammi o figure di base; il 49% aveva un deficit di percezione spaziale, che si traduce in difficoltà a identificare la posizione di ciò che si vede; e il 48% presentava simultanagnosia, ossia l’incapacità di percepire visivamente più di un oggetto alla volta. Inoltre, il 47% ha incontrato difficoltà nello svolgere calcoli matematici di base e il 43% nella lettura. C’è bisogno che vi sia una maggiore consapevolezza della Apc, in modo che possa essere facilmente segnalata dai pazienti e riconosciuta dai medici. La maggior parte dei pazienti si rivolge all’optometrista quando inizia a manifestare sintomi visivi e spesso viene indirizzata a rivolgersi a un oftalmologo, che potrebbe anche non riconoscere la Apc. C’è bisogno di strumenti migliori in ambito clinico per identificare precocemente questi pazienti e sottoporli a un trattamento. L’età media di insorgenza dei sintomi della Apc è di 59 anni, diversi in meno rispetto a quella dell’Alzheimer. Questo è un altro motivo per cui i pazienti con Apc hanno meno probabilità di ricevere una diagnosi.