Dopo tre anni alla guida dell’Istituto Italiano di Cultura di Sydney, Paolo Barlera si congeda con la stessa discrezione con cui è arrivato.

Ma chi ha avuto la fortuna di lavorarci o anche solo di ascoltarlo, capisce subito che dietro quella riservatezza si nasconde una visione profonda, raffinata e, soprattutto, non allineata.

Qualcuno diceva che “la vita è un po’ come il jazz: è meglio quando s’improvvisa”. E in effetti, Barlera non aveva previsto una carriera nella diplomazia culturale.

Da giovane laureato, si è trasferito a New York con l’intenzione di seguire un percorso accademico e iniziare un dottorato. È stato quasi per caso che ha cominciato a lavorare all’Istituto Italiano di Cultura della città, come responsabile della comunicazione e della biblioteca.

Di diplomazia culturale, allora, sapeva poco. Ma da quell’incarico iniziale è nato un percorso lungo oltre trent’anni, che lo ha portato a dirigere gli IIC di San Francisco, New York e infine Sydney. Una traiettoria fatta di passione, spirito critico e un’idea forte: che la cultura non debba mai essere usata come decorazione o strumento di potere, ma come spazio di dialogo e riflessione.

“La diplomazia culturale è, come dite, fragile – concorda con noi –, rischia sempre di essere abusata e tradita in nome di fini poco nobili. A sussidio di imprese, commercio o di qualche vaga ‘utilità’. È un concetto che solo recentemente ha cominciato a farsi largo nelle istituzioni italiane”.

Eppure è proprio su questo confine sottile che Barlera ha costruito il suo lavoro per oltre trent’anni, tra Stati Uniti e infine Australia.

Un lavoro fatto più di ascolto che di marketing, molto più di idee che di slogan.

Per descrivere il rischio di scivolare dalla cultura alla sua caricatura, Barlera cita Arbasino: “La cultura vera è una brutta bestia. Non tollera la presunzione, esige umiltà. Sparita la cultura, ci si ritrova nelle mani della sua ancella vestita in maniera assai simile: la pseudo-cultura”.

Nel suo intento non ci sono frasi fatte, niente trionfalismi “sull’eccellenza italiana”. Piuttosto, un lavoro quotidiano e rigoroso di supporto e di condivisione della cultura. “La mia priorità è sempre stata dare spazio a chi ne ha bisogno: giovani, donne, artisti emergenti. Non serviva promuovere artisti già conosciuti ovunque. Volevo che l’Istituto diventasse un punto di riferimento. Un luogo dove la gente venisse anche senza conoscere gli artisti in programma, fidandosi della proposta”.

Questa fiducia, Barlera se l’è conquistata in silenzio, programmando eventi di qualità, sostenendo realtà locali, portando artisti da una sede all’altra (come Viola Buitoni da San Francisco a Sydney) e cercando, sempre, un dialogo con il territorio.

Rispondendo a una domanda a proposito d’italianità, tema oggi tanto inflazionato quanto abusato, la sua visione è netta: “Vista dall’osservatorio degli IIC, l’italianità ha subito due trasformazioni. Prima era un servizio alla comunità di emigrati, poi è diventata ponte fra Italia e mondo. Oggi, dev’essere soprattutto contemporaneità: ciò che l’Italia sta producendo ora, in questo momento”.

Ma cosa resta davvero italiano quando l’Italia si muove nel mondo? “Bella domanda – dice –, dovremmo prima chiederci cosa intendiamo per italianità. C’è qualcosa di ‘italiano’ in un film girato da Luca Guadagnino in America con attori americani? O in un musicista italiano che suona Bach? Se vogliamo darle senso, dobbiamo andare oltre lingua e anagrafe: parlare di sensibilità, riferimenti sociali, mezzi di produzione”.

Nella sua carriera, ha osservato le comunità italiane evolversi: più anziana e sradicata quella di New York, più giovane e viva quella di Sydney.

E sulle sfide possibili che immagina gli IIC incorrano in futuro risponde: “Sicuramente coinvolgere i giovani. Nessuno ha ancora trovato la formula giusta. Non possiamo diventare promotori di Taylor Swift, ma dobbiamo chiederci come restare rilevanti, come offrire cultura che parli anche a loro”.

E ora che va in pensione? “Vorrei dedicarmi a passioni mai coltivate, come il mondo del vino. Magari fare corsi da sommelier”. Giustamente, dopo tanti anni passati a raccontare l’Italia agli altri, è il momento di ascoltare di nuovo se stesso.

Con Paolo Barlera se ne va una figura fuori dagli schemi, lontana dai riflettori, ma necessaria. Uno di quelli che, invece, di “vendere” l’Italia, ha provato a offrirla. Senza rumore, ma con intelligenza, misura e una visione che oggi mancherà.