In politica, soprattutto in questo momento storico di grande polarizzazione tra le tendenze di recupero di un tempo che fu e altre più progressiste, le fasi di ridefinizione identitaria sono spesso le più rischiose ma anche le più rivelatrici. Ma è proprio in queste fasi che si misura la capacità di far politica, che si comprende se un partito sia capace di parlare con una sola voce e dimostrarsi credibile come potenziale forza di governo davanti agli elettori.
La fotografia della realtà di questi mesi è quella di un governo che appare saldo e orientato a una visione di lungo periodo, mentre la Coalizione, invece di compattarsi facendo tesoro degli errori del passato, continua, con una confusione incredibile, a macerarsi in un costante conflitto interno.
Conflittualità che mette a nudo le fragilità di un’area conservatrice ancora troppo incapace di tirare le somme sbilanciandosi troppo a favore del populismo, a scapito di un necessario pragmatismo. Dalla sconfitta di maggio, lo raccontiamo in una ormai costante cronaca quotidiana, la linea politica della Coalizione si è sgretolata su uno dei temi più cruciali del nostro tempo: la transizione energetica e il cambiamento climatico. Mentre i laburisti hanno scelto di costruire la loro agenda economica e industriale proprio intorno alla decarbonizzazione e alla “nuova economia verde”, forse con sin troppo entusiasmo, non sempre ben motivato, da parte del responsabile del competente dicastero, Chris Bowen, liberali e nazionali si scontrano su una questione apparentemente simbolica, ma che, in realtà, è per loro anche estremamente identitaria: mantenere o abbandonare l’impegno al net zero entro il 2050 e l’adesione all’Accordo di Parigi.
Le divisioni interne al partito liberale hanno assunto toni profondamente ideologici. Da una parte, la corrente moderata, rappresentata da figure come il senatore Andrew Bragg, difende l’impegno internazionale assunto dall’Australia come una questione di responsabilità e reputazione nazionale. “Non possiamo comportarci come i paria della comunità internazionale,” ha affermato Bragg, avvertendo che abbandonare l’Accordo di Parigi significherebbe allinearsi a Paesi come Siria o Iran.
Dall’altra parte, una componente sempre più rumorosa della destra liberale e dei nazionali spinge per archiviare non solo il linguaggio della transizione, ma anche l’idea stessa di obiettivi climatici vincolanti, in nome di un ritorno a una “politica dell’abbondanza energetica”, basata sul carbone, sul gas e, in prospettiva sul nucleare, un fronte che, in maniera molto confusionaria, aveva aperto l’ex leader della Coalizione Peter Dutton.
Questa divergenza non è solo programmatica: è assolutamente culturale. Mentre i moderati insistono su un liberalismo moderno, in linea con l’opinione pubblica delle aree urbane e con gli standard riconosciuti dalla maggioranza dei Paesi occidentali, la frangia conservatrice parla al cuore di un elettorato regionale e disilluso, colpito dai costi energetici e da una percezione di sempre maggiore marginalizzazione economica. La frattura, già visibile alle ultime elezioni, oggi minaccia di trasformarsi in una scissione di natura identitaria.
Nel mezzo di tutta questa tensione si trova Sussan Ley, una leader costretta a tenere insieme due anime che oggi sembrano inconciliabili. Dopo la pesante sconfitta, lo ricordiamo, la peggiore per la Coalizione dal dopoguerra, Ley è stata investita, chi lo sa, forse suo malgrado, del compito di ricostruire il partito. Ma le recenti cronache politiche provenienti da Canberra hanno mostrato quanto il cammino da percorrere sia accidentato.
Da un lato, Ley deve rispondere ai moderati che chiedono coerenza e responsabilità anche a livello internazionale; dall’altro, deve contenere la pressione dei conservatori, sempre più allineati alle posizioni dei Nazionali e al linguaggio populista di “energia senza vincoli”.
Il risultato è una paralisi che non è solo politica, ma anche comunicativa. Mentre i laburisti si presentano con un messaggio coerente che ha ricevuto un pieno mandato dagli elettori, ed è basato su sviluppo, innovazione, transizione energetica, la Coalizione appare preda di una disputa interna che è anche semantica: non si parla soltanto più di “cosa fare” ma anche di “cosa - e come - dire”. Il dibattito, come ha osservato la senatrice Jane Hume, è diventato “una guerra su due parole”. Questa battaglia linguistica – “net zero” sì o no – riflette però un problema più profondo: la mancanza di una visione comune. È difficile costruire una credibile alternativa di governo quando si discute più di identità che di soluzioni.
Il rischio, che oggi sembra decisamente una realtà, per i liberali, è di ritrovarsi schiacciati tra due spinte opposte: quella ideologica, che li muove verso una retorica ‘passatista’, e quella pragmatica, che richiede invece la necessità di riconoscere le opportunità economiche e industriali della transizione energetica.
Il senatore Bragg, ieri mattina ospite di Insiders, sull’ABC, lo ha detto con chiarezza: “Dobbiamo fare il net zero meglio dei laburisti.” È una posizione, molto chiara, che riconosce la realtà del cambiamento senza abbracciare le politiche governative, ma che al momento appare decisamente minoritaria in un partito sempre più polarizzato.
Il portavoce dell’energia Dan Tehan, invece, ha lasciato intendere che la nuova politica liberale potrebbe includere sussidi al carbone e al gas, e un prolungamento della vita delle centrali a combustibili fossili. È la linea del “breve termine”, quella che guarda ai prossimi due anni anziché ai prossimi due decenni. Ma è anche la linea che, in nome dell’energia a basso costo, rischia di isolare l’Australia dai mercati internazionali più avanzati, che stanno accelerando sulla decarbonizzazione. Il paradosso è evidente: mentre i laburisti hanno trasformato la politica energetica in un asse strategico e in una opportunità a favore della crescita economica e, si spera, della produttività, la Coalizione la vive come un campo di battaglia ideologico, tra l’altro, tutto interno. E questo squilibrio si riflette, negativamente per la Coalizione, nel consenso e nei sondaggi.
Mentre la Coalizione litiga, il governo invece consolida la propria immagine di solidità e continuità. Il Tesoriere Jim Chalmers, in un recente intervento all’Australian National University, ha delineato una visione di “quarta economia australiana” fondata su energia pulita, intelligenza artificiale e innovazione.
Il discorso, intriso di richiami alla tradizione riformista di Paul Keating, è stato interpretato da molti come una sorta di manifesto per una successione nella leadership del Partito.
Non era, comunque, un discorso politico in senso stretto, ma un’affermazione di metodo: la politica deve essere fatta di sostanza e concretezza. Letto più in profondità, il messaggio implicito sembrava contenere un’analisi della situazione: l’opposizione è ferma su dispute interne, noi, al governo, procediamo con le nostre politiche riformiste in una visione che intreccia tutti i temi dell’attualità con la crescita economica.
Il 2025 si avvia alla conclusione con una definizione molto evidente della ‘sostanza’ di cui è fatta la squadra guidata da Anthony Albanese: non solo governano, ma trasmettono l’impressione di sapere dove stanno andando.
Chalmers ha richiamato una lezione importante: le grandi trasformazioni economiche richiedono leadership e visione. Oggi, quella visione si chiama transizione energetica. Non è solo una questione ambientale, ma industriale, occupazionale e geopolitica. Chi la interpreta esclusivamente come un vincolo ideologico rischia di restare indietro.
In questo senso, la crisi dei liberali in Australia ricorda quella di altri partiti conservatori occidentali alle prese con la riconciliazione tra tradizione e futuro. Come accade ai Tories britannici o ai Repubblicani americani, la destra australiana è divisa tra chi vuole riformulare il conservatorismo in chiave moderna e chi lo vuole difendere come baluardo contro il cambiamento.
La ricostruzione della Coalizione non può, però, limitarsi a un esercizio di comunicazione. Richiede una riflessione più profonda sulla missione politica del centrodestra in un Paese che, ormai, chiede risposte concrete sui temi del costo della vita, dell’energia e della sicurezza economica. Se i liberali continueranno a percepire il “net zero” come un’imposizione, anziché come una piattaforma di dibattito in favore della crescita, resteranno prigionieri di un passato che l’elettorato urbano, e in larga parte anche quello regionale, considera superato.
L’aumento del consenso per Albanese e Chalmers non nasce solo da un’efficiente gestione dell’economia, ma da un linguaggio politico coerente, che unisce prudenza fiscale e riformismo moderato. È un equilibrio che la Coalizione sembra aver smarrito, sostituendolo con un linguaggio frammentato, talvolta nostalgico, talvolta rabbioso.
La democrazia australiana funziona meglio quando le sue principali forze politiche offrono due visioni chiare e credibili del futuro. Oggi, quella dei laburisti appare coerente, mentre quella della Coalizione è ancora sotto forma di un disordinato mosaico. Sussan Ley, per sopravvivere politicamente, dovrà trovare una sintesi tra modernità e tradizione, tra aree urbane e regionali, tra moderazione e radicalità. È una sfida che pochi leader sono riusciti a vincere, ma da cui dipende non solo il futuro del suo partito, bensì la qualità dell’intero dibattito pubblico in questo Paese.