Una delle possibili letture di quanto avvenuto ieri potrebbe essere quella di individuare, nei rispettivi interventi della governatrice della Reserve Bank Michele Bullock e del ministro del Tesoro Jim Chalmers, l’ennesimo episodio di divergenza nell’intepretazione dei dati economici e nella risposta che si intende offrire a questo particolare momento storico. La reazione all’annuncio di una crescita molto blanda del prodotto interno lordo (articolo a pagina 11), resa nota dall’Ufficio australiano di statistica, ha offerto infatti, sotto alcuni punti di vista, una visione non particolarmente allineata tra il Tesoriere e la Reserve Bank.

Il ministro del Tesoro, infatti, nella sua dichiarazione ufficiale a commento del dato del Pil, sembra quasi volersi smarcare dalla banca, e anche giustamente, essendo la RBA un’organismo indipendente dal governo.

Chalmers è molto chiaro: “la principale motivazione di questa debole crescita economica è negli alti tassi di interesse, in combinazione con una moderata ma persistente inflazione e una continua instabilità a livello globale”.

“Questi numeri - ha proseguito il Tesoriere - dimostrano che la nostra manovra finanziaria sia stata corretta. Con un approccio di lotta all’inflazione senza distruggere l’economia, con una crescita debole e i cittadini sotto pressione”. Insomma, il governo sta facendo di tutto e, secondo Chalmers, lo sta facendo anche bene e i dati di ieri confermano che “la nostra responsabile strategia fiscale è esattamente corretta per quella serie di sfide che stiamo affrontando nell’economia”.

Dal canto suo, Michele Bullock, nel rispondere alla Commissione economica del Senato e sottolineando nuovamente come sia l’inflazione la vera fonte di pressione per gli australiani e non solo l’aumento del costo del denaro, ha replicato al senatore dei Verdi, Nick McKim, che ha evidenziato come sia diverso l’impatto dei tassi di interesse in crescita sulle diverse fasce della popolazione australiana, con i più giovani che si trovano in condizioni di maggiori difficoltà rispetto a chi, magari perché non ha un mutuo da pagare e avendo risparmi depositati, si trova invece a beneficiare del costo del denaro in aumento.

“La politica monetaria ha solo una leva”, ha risposto con una certa fermezza la Bullock, ovvero intervenire sui “tassi di interesse per cercare di avere un impatto sulla domanda aggregata, e noi stiamo avendo un impatto sulla domanda aggregata”.

Lotta all’inflazione ripetuta come un mantra, perché, ha sottolineato la governatrice della Reserve Bank, “tutti sono danneggiati dall’aumento dell’inflazione”. Tutto questo con il solito e ricorrente da qualche tempo a questa parte, spettro anche di un potenziale ritocco al rialzo dei tassi qualora il dato, soprattutto quello trimestrale, dell’inflazione, dovesse segnalare un preoccupante rimbalzo.

Una sorta di percorso di divergenze parallele, quello che contraddistingue la dialettica, e le scelte, del governo e della banca centrale.

Certo, nessuno può negare che l’aumento sostenuto del livello generale dei prezzi di beni e servizi rappresenti una delle sfide più complesse per la politica e per le banche centrali di tutto il mondo. Ridurre i livelli di inflazione richiede infatti una combinazione molto articolata di strumenti economici che includono politiche monetarie, politiche fiscali e riforme strutturali di sistema.

Ma forse proprio nelle politiche monetarie adottate dalle principali banche centrali mondiali si può evidenziare un qualche elemento su cui si strutturano queste divergenze. Facciamo un passo indietro, l’adozione, diffusa poi a livello globale, dell’obiettivo del 2 per cento, nasce negli anni ‘90 quando, in Nuova Zelanda, alle prese con livelli di inflazione molto alti, con punte che hanno toccato quasi il 19 per cento, prende il via quella che poi venne definita dalla stampa come “Rogernomics”. Si tratta di un neologismo coniato dal nome dell’allora ministro delle Finanze, Roger Douglas, per identificare tutta quella serie di iniziative di politica economica messe in piedi dal governo neozelandese anche per il controllo dell’inflazione.

Nel corso di una intervista di qualche anno fa, Don Brash, l’allora governatore della Reserve Bank della Nuova Zelanda, ricordava come fu proprio il ministro delle Finanze Douglas, interpellato dai giornalisti, a dirsi ben poco soddisfatto della curva in discesa dell’inflazione, tirando in ballo un dato idealmente accettabile tra lo 0 e l’1 per cento. Un numero, lanciato anche in maniera apparentemente improvvisata, ma di cui, tuttavia, la banca centrale neozelandese non poteva che prendere atto, provenendo da un membro del governo. Non era, come ha ammesso anche un altro membro del consiglio della Reserve Bank della Nuova Zelanda, Michael Reddell, un dato basato su considerazioni scientifiche e matematiche, ma ormai il ‘numero’ era stato indicato e occorreva puntare a quell’obiettivo. Pur mancando una particolare motivazione scientifico-economica alla base di questo dato, non si può negare il fattore psicologico: offrire un obiettivo chiaro e moderato, al ribasso, contribuisce infatti a una più efficace comunicazione verso il pubblico e i mercati, provando a garantire una forma di stabilizzazione delle stesse aspettative dell’inflazione.

Ovviamente non sono mancate e non mancano le critiche e i dibattiti sull’opportunità di rivedere questo obiettivo, o quantomeno di essere meno rigidi nelle politiche monetarie per raggiungerlo, da molte parti si suggerisce infatti che, in un contesto come questo di bassa crescita, un obiettivo più alto potrebbe addirittura offrire maggiore flessibilità per stimolare l’economia.

Inoltre, proprio perché il 2 per cento non è un numero strettamente scientifico, alcuni osservatori sostengono che i banchieri centrali potrebbero individuare anche altri indicatori su cui concentrare le proprie valutazioni per “l’unica leva” di politica monetaria, come, ad esempio, tasso di disoccupazione o, appunto, la crescita economica del Paese.

Il rischio, infatti, di politiche monetarie così rigide, e lo raccontano i fatti di questi anni post pandemia, è che il raggiungimento dell’obiettivo del 2-3 per cento a colpi di rialzo del costo del denaro possa portare a uno doloroso strangolamento dell’economia del Paese, mettendo a rischio crescita, posti di lavoro e i risparmi degli australiani.