Le lunghe giornate in redazione, le nottate davanti alla macchina da scrivere, il ticchettio dell’orologio che avvicina il momento in cui il giornale va in stampa. E le infinite discussioni per scegliere le notizie, i sorrisi, le tensioni, le frustrazioni, l’orgoglio infine di entrare in una qualsiasi edicola e osservare la prima pagina sulla quale si è lavorato poco prima, e restare lì a guardarla sugli scaffali per lunghissimi minuti. Niente può trasmettere tutte queste sensazioni a chi non ha vissuto quell’evento in prima persona.
C’è però una sensazione chiara, netta, che si può provare ascoltando i racconti e le storie dalla voce diretta di Ubaldo Larobina, che quei sessant’anni li ha vissuti fin dal principio, che a quella storia ha dedicato la propria vita, perché quella storia in fondo è anche la sua.
Ma è anche la storia di un gruppo di collaboratori che hanno dato il loro contribuito alla parte editoriale, alla raccolta delle prime pubblicità, alla organizzazione della distribuzione di quel giornale che è Il Globo, uscito per la prima volta in edicola il 4 novembre del lontano 1959. Esattamente 60 anni fa.
Un giornale di otto ‘grandi’ pagine, nato in un ‘piccolo’ locale al 575 Sydney Road, nel sobborgo italiano di Brunswick, a Melbourne.
Se fossimo entrati in quel locale nella primavera del 1959, non ci saremmo trovati davanti a una Redazione come sarebbe stato logico aspettarsela, ma avremmo notato solo due piccole “scrivanie”, un telefono e quattro sedie.
Per scoprire qualcosa che potesse far pensare alla sede di un giornale avremmo dovuto varcare la porta che immetteva in un buio locale, abbastanza ampio da ospitare una linotype e quattro banconi da composizione. Altri scaffali contenevano lettere e numeri di piombo, di diversa grandezza e formato, da usare per i titoli e le pubblicità.
Attraversata poi con molta cautela la “tipografia”, si usciva nella back yard, dove in un piccolo bungalow era stata allestita la Direzione e Redazione: un grande tavolo da cucina con intorno alcuni sacchi di stracci che fungevano da sedie.
Proprio su questi sgabelli, improvvisati ma comodi - come ricorda Larobina - è nato Il Globo, il giornale che dal novembre 1959 accompagna la vita della comunità italiana di Melbourne e di tutta l’Australia e che da sessant’anni, puntualmente, porta nelle case degli italiani di tutto il continente le voci lontane di una patria mai dimenticata e quelle vicine di una comunità che ha ancora molto da fare e da dire.
Fin dall’inizio di questa storia, infatti, il giornale e le comunità italiane in ogni angolo d’Australia hanno camminato e sono cresciute insieme. E se anche non molti oggi lo ricordano, ci sono stati dei momenti e delle esperienze per cui, grazie alla stretta collaborazione e al sostegno de Il Globo, la nascente comunità italiana ha potuto sviluppare quegli spazi di condivisione che, senza una tale sinergia, forse non sarebbero mai stati così come li conosciamo. E non è un particolare da poco, perché proprio l’Australia è l’esempio unico di un’esperienza del genere.
Lo ‘spirito’ che ha dato l’impulso allo sviluppo della comunità attraverso l’associazionismo - i club - è legato a momenti particolari e per rintracciarli occorre ripercorrere, a ritroso, alcuni decenni.
Gli immigrati italiani giunti a Melbourne dopo la conclusione della guerra e l’inizio della immigrazione assistita hanno trovato una presenza italiana come testimoniano realtà come il “Club Cavour” a South Melbourne e la “Società di Mutuo Soccorso Isole Eolie” in Lygon Street, a North Carlton.
Si “sussurrava”, in maniera molto generica e riservata, dell’esistenza di una “Casa d’Italia”. Ma pochissimi sapevano dove era e come veniva utilizzata. Uno dei segreti che venivano custoditi da pochissimi elementi della immigrazione precedente agli anni Cinquanta. Tanto era segreto, che, nella prima edizione de Il Globo, nella spalla della prima pagina, vi era un articolo che invitava i gestori di quel patrimonio della comunità italiana di farsi avanti. Anche se la foto che la ritrae - e questo è uno di quei retroscena divertenti della vita di un giornale -, in realtà, è sbagliata, perché il giovane fotografo che fu inviato sul posto quel giorno immortalò per errore un altro edificio.
Un episodio che citiamo perché è indicativo per capire come, quando il giornale uscì con il suo primo numero, la vita della comunità fosse ancora molto sfilacciata, tanto che non era così scontato che tutti conoscessero esattamente il posto dove aveva sede la “Casa d’Italia” a Melbourne.
Ma torniamo alla nostra storia. E la riprendiamo, nel racconto di Larobina, dalla visita negli uffici de II Globo di una rappresentante della “Spastic Children’s Society” del Victoria. Precisamente una delle organizzatrici del concorso per l’elezione di “Miss Victoria” e “Miss Victoria Charity Queen”.
Scopo del concorso era quello di raccogliere fondi da devolvere ai centri di assistenza per bambini spastici.
E quel giorno la signora Helen Bogden (molti nella collettività italiana certamente la ricorderanno) era sul piede di guerra perché era stata sbattuta da un’istituzione ufficiale italiana all’altra senza riuscire a trovare un minimo di collaborazione per coinvolgere la comunità italiana a partecipare al Concorso di “Miss Victoria” e potenzialmente anche a quello di “Miss Australia”.

La premiazione di Miss Charity Queen 1980. Da sinistra, Ubaldo Larobina, il ministro per l’Immigrazione Ian Macphee, Pietro Rampazzo, la Miss uscente Doriana Scolaro e la vincitrice Daniela Bruschi
La direzione de Il Globo accettò subito di collaborare e immediatamente lanciò un appello alla collettività italiana del Victoria.
Il primo anno i fondi raccolti si fermarono a poche migliaia di dollari, ma nessuno si diede per vinto. Alla raccolta, infatti, partecipavano tutte le più grandi organizzazioni e associazioni australiane e vincere su di esse non era facile. Eppure, quando si tratta di gare per la beneficenza, gli italiani d’Australia hanno sempre sentito una spinta particolare. Sarà perché quando si tratta di condizioni di sofferenza, chi è stato costretto a lasciare la propria terra e la propria famiglia sa di cosa si parla. O sarà perché il duro lavoro al quale gli italiani non si sono mai sottratti insegna la solidarietà. Fatto sta, che, in breve, le raccolte aumentarono in modo esponenziale. Finché, con il sostegno battente de Il Globo, proprio la comunità italiana cominciò ad essere sempre la prima nella raccolta fondi per aiutare i bambini con disabilità.
Il sorriso della signora Bogden si allargò sempre di più e le istituzioni e la comunità australiana cominciarono a guardare con sempre maggiore rispetto a quel “weird mob” che si raccoglieva stretto attorno ad un piccolo giornale di Sydney Road. E il rispetto così guadagnato è qualcosa che lascia il segno.
A rendere, in quegli anni, possibile un tale risultato fu proprio la crescita esponenziale dei club italiani, che misero in piedi una gara nella gara per offrire il proprio sostegno.
Ad accendere i motori di questa crescita fu anche l’Alitalia. Gli italiani d’Australia, quindi, ebbero un incentivo per dar vita a nuove associazioni dalla “compagnia di bandiera”.
Tutto nacque da una idea di marketing.
In cerca, all’epoca, di espansione sul continente australiano, all’Alitalia venne in mente di agganciare la numerosissima comunità italiana che, grazie alla crescita del trasporto aereo, non vedeva l’ora di poter tornare a trovare i propri cari lontani. La proposta dell’Alitalia fu semplice ma vincente. Tramite una campagna di piccoli annunci su Il Globo, la compagnia di bandiera propose alla comunità italiana di formare gruppi di persone che fossero soci dello stesso club o della stessa associazione e desiderosi di recarsi in Italia nello stesso volo. Agli organizzatori del gruppo - come accompagnatori - due biglietti gratis andata e ritorno.
E fu così, con questa iniziativa, che l’Alitalia diede impulso alla nascita di associazioni, che successivamente si trasformarono in club con propria sede sociale.
La partecipazione alla vita di questi club aumentò a vista d’occhio e in non molto tempo; da semplici luoghi di ritrovo, si trasformarono in veri e propri circoli di alto livello, che nulla avevano da invidiare ai loro cugini anglosassoni. Nati così dalla voglia di condividere una partita a carte e un bicchiere di vino, i club di quegli anni si ritrovarono ad essere il teatro di balli e serate di gala in abito scuro di grande eleganza.
Al calendario delle feste sociali dei club si aggiunsero le serate e le iniziative varie per la raccolta di fondi da parte delle concorrenti al concorso per l’elezione delle Reginette che avrebbero rappresentato il loro club al “Miss Italian Community Quest”. L’impegno e l’entusiasmo delle candidate, delle famiglie, degli amici, dei sostenitori, fu commovente, ricorda il fondatore del giornale.
Sull’onda di questo impulso, entrambi, il giornale e la comunità italiana, poterono così cominciare ad uscire dal ristretto mondo delle realtà etniche, esponendosi alla visibilità della società australiana per l’intensa attività a supporto delle organizzazioni di beneficenza.
Fu un passaggio determinante e, protagoniste di questo passaggio, di questa crescita sociale della comunità, furono soprattutto le donne, direttamente coinvolte nelle raccolte di fondi. Molte di loro, ancora oggi e a tanti anni di distanza, ricordano con grande trasporto quella che per loro fu l’occasione eccezionale di poter partecipare ad un concorso, di potersi sentire protagoniste, di poter osservare la propria fotografia sul giornale. La vita, in fondo, a quel tempo non era così in mostra come oggi; era fatta di cose semplici, e queste esperienze la rendevano in qualche modo speciale, condivisa, più entusiasmante.
Fu anche grazie alla passione di queste ragazze se la rispettabilità e l’ammirazione della comunità crebbe a tal punto che gli eventi organizzati dai club in quegli anni cominciarono ad essere frequentati da tante personalità della politica australiana, che facevano a gara per essere invitati alle eleganti serate di Carlton o Brunswick, permettendo un incontro tra la nuova comunità e molti ambienti della nuova società d’adozione, che era impensabile solo poco tempo prima.
E anche se con il tempo l’entusiasmo per Miss Italia diminuì, perché come tutte le cose il passare degli anni ne esaurisce la vitalità, da quella esperienza la comunità italiana uscì finalmente più unita e in qualche modo più consapevole della propria forza. Intanto, accanto ad essa anche il giornale, motore di queste iniziative, andava a gonfie vele.
Fin dal primo numero la fila davanti alle edicole in attesa che arrivasse la nuova edizione era lunga e l’importanza di chi rappresentava la comunità italiana crebbe rapidamente, tanto che presto Il Globo divenne anche punto di riferimento per l’Associazione dei giornali italiani all’estero e per quella dei giornali etnici in Australia. Al tempo, però, tutti i media non in lingua inglese non erano ancora riconosciuti come organi di stampa e fu pertanto verso questa nuova battaglia che Il Globo indirizzò i suoi sforzi, a nome di un riconoscimento che era allo stesso tempo importante sia per il lavoro di informazione presso le comunità di riferimento sia per la funzione di voce di quelle stesse comunità, che solo i media etnici svolgevano e che altrimenti avrebbero rischiato di essere emarginate e isolate.
Le lingue diverse dall’inglese hanno, infatti, sempre fatto parte del panorama stesso della nazione australiana; il loro rispetto passava non solo per un riconoscimento formale dei loro media ma anche per la loro preservazione all’interno delle comunità etniche. Era un elemento stesso della nazione e lo sarebbe stato nel suo futuro. Ma lo sguardo sul futuro è un dono innato: o ce l’hai o non ce l’hai, perché la miopia più grave non sta negli occhi, ma nella mente. Ed è questa capacità che permette ad una realtà di sopravvivere per sessant’anni sviluppando uno sguardo che riesce ad arrivare oltre l’orizzonte.
Oggi tutti si mostrano orgogliosi dell’insegnamento della lingua italiana nelle scuole australiane. Il governo italiano investe nella promozione della lingua perché ha capito che, prima dei prodotti, è la cultura ad avere le gambe veloci, a raggiungere anche la gente più lontana, a farla innamorare dei sapori, degli odori, a insegnargli il senso del gusto. Senza di essa, senza una diffusione della lingua, tutto il resto non riesce a passare. Il primo a capirlo nell’Australia degli anni ‘70 fu proprio Il Globo, sottolinea Larobina, che, facendo leva sul rispetto che si era guadagnato nel tempo, si propose come campione dell’insegnamento della lingua italiana nelle scuole del Victoria prima, e di tutta l’Australia, poi. All’inizio, però, la resistenza opposta dalla politica e dalle istituzioni australiane ad una tale iniziativa fu caparbia. Altro che lingue straniere, si diceva; le comunità etniche dovevano studiare e migliorare l’inglese. E sebbene fosse difficile obiettare a questa replica, Il Globo fu abile a far passare l’idea che le lingue “sono un mezzo per unire e non per dividere i popoli” e che dal loro insegnamento l’intera società australiana, a partire dalle nuove generazioni, avrebbe potuto trarre un immenso giovamento. Così, in breve, vennero i fondi per le scuole di italiano, si cominciò a insegnare la lingua in tutto la nazione e la comunità italiana fece da apripista, creando la breccia dove si infilarono poi tutte le altre comunità. I risultati di quell’opera di riconoscimento, sostenuta dal giornale, si vedono ancora oggi e hanno contribuito allo sviluppo del multiculturalismo, che è tuttora motivo di vanto della società australiana nel mondo.
A Il Globo, intanto, si continuava a stampare un numero sempre più alto di copie, spinto in su soprattutto dall’attesa per i risultati delle partite di Serie A, che, in un’epoca in cui era molto difficile comunicare in tempo reale, diventava quasi spasmodica. Fu l’amore per lo sport, dunque, a fare da volano, con i risultati delle partite raccolti tramite una radio di uso bellico impiantata nella redazione e collegata ad un’antenna parabolica, che riusciva a captare lontani segnali delle radiocronache, per pubblicarli poi sul giornale poche ore dopo. Fu una novità incredibile. La richiesta di sport era alta e funzionava, ma il giornale non si accontentò di fermarsi a quello. Gli italiani chiedevano i risultati delle partite e ll Globo glieli diede, ma assieme a quelli gli diede anche molto altro, dalla politica alla cronaca, a tutto il resto. “In piccolo, modestamente, ma dando spazio a tutto”, e senza il timore di affrontare anche tanti argomenti difficili all’interno della stessa comunità, facendo sentire forte la propria voce quando era necessario. Anche con i pochi mezzi che aveva a disposizione, la sua grande forza derivò soprattutto dalla convinzione di svolgere un servizio altamente necessario, ma allo stesso modo dalla fortuna di avere una squadra di persone pronte a dedicare al giornale la propria vita con passione.
“C’era Nino [Randazzo], che partiva in quarta e bisognava frenarlo un po’, ma ha fatto sempre un grande lavoro, con grande dedizione”. La domenica sera, ricorda Larobina, si appisolava e poi si svegliava di soprassalto e cominciava a scrivere i suoi pezzi arrembanti andando avanti fino a notte fonda. E intanto si sentivano le urla dei linotipisti che erano in ritardo. In tipografia c’era Giovanni Musco, un signore venuto dall’Egitto che del suo lavoro aveva fatto un’arte e che mentre era intento a comporre le pagine per la stampa borbottava e borbottava. Quello del linotipista per lui era un mestiere di famiglia e in breve anche i figli cominciarono a lavorare al giornale come compositori. In pratica, così, la tipografia de Il Globo divenne territorio egiziano, ma di lingua completamente italiana, perché alcuni di loro conoscevano l’italiano perfino meglio degli italiani stessi e non capitava di rado che fossero loro ad accorgersi di alcuni errori dei redattori e li correggessero mentre facevano il loro lavoro.

Giovanni Musco alla sua fedele linotype
Musco la sua linotype la teneva come un gioiello; era sempre intento a lustrarla e a oliarla, per mantenere perfetta la sua tenuta.
Ma con quegli strumenti fare il giornale era un compito molto complesso e la vera espansione arrivò quando nella nuova sede di Faraday Street, a Carlton, giunsero i primi prototipi di macchine più avanzate tecnologicamente. All’inizio fu un esperimento. Tanto che l’azienda che le produceva era ancora in fase di collaudo e propose al giornale di installare le macchine curando poi notte e giorno la supervisione tecnica per un lungo periodo. L’avvento delle macchine più sofisticate fu una scommessa che permise fin da subito al giornale di accrescere enormemente il numero delle pagine. Fu un grande progresso, ma a Il Globo il progresso non ha mai significato dimenticare il proprio passato. I linotipisti, infatti, superati dalle nuove tecnologie, non persero il proprio posto ma vennero assegnati ad altri incarichi. Tra le tante persone che hanno fatto la storia di questi sessant’anni non si possono poi non ricordare Tarcisio Valmorbida e la sua famiglia. Con Tarcisio, che credette molto nel giornale, si può dire che tutto cominciò con un viaggio. Un viaggio attraverso il Victoria e il New South Wales a conoscere la comunità italiana, raccolta non solo nelle città ma sperduta anche nelle immense campagne australiane. Un viaggio il cui scopo era quello di capire quali fossero i bisogni della comunità, le sue necessità, le sue aspirazioni. Un road trip di quelli che nell’immaginazione hanno il sapore romantico di un’avventura e che forse un po’ effettivamente ce l’hanno, ma che nella loro realtà sono fatti di montagne di chilometri per le interminabili strade d’Australia, di lunghe discussioni, di ascolto, di riflessioni. Quelle riflessioni a Il Globo non furono mai dimenticate e le parole ascoltate e raccolte in quel viaggio hanno costituito i punti cardinali nella lunga vita del giornale. Ripercorrendo all’indietro i tanti ricordi, infatti, non si può non notare una forte ispirazione che Il Globo ha tratto proprio dalle tante storie della comunità, dalle sue tradizioni, dalle esperienze che ne avevano plasmato l’immagine e, in un certo senso, il carattere. Questa ispirazione ha guidato nel tempo le tante scelte, persino alcune un po’ rocambolesche, come quando si decise di annettere La Fiamma, fino a quel momento la testata comunitaria concorrente per eccellenza. Più che per vantaggio economico lo si fece per non far morire quella che, dopo tutto, era una presenza storica nel panorama della comunità. E le esigenze del mercato, del guadagno economico, lasciarono il campo al valore della tradizione, al rispetto per ciò che quella storia aveva significato per la comunità.
Oggi, Il Globo si affaccia ai suoi sessant’anni di vita con tutto questo enorme bagaglio di tradizione e di storia sulle spalle, una ricchezza e un valore che lo hanno sostenuto in tutti questi anni, anche grazie ad una collettività che si è dimostrata capace di riconoscere quanto il giornale fosse importante per la sua crescita, quanto una voce così forte fosse un baluardo attorno al quale la comunità italiana potesse stringersi. E seppure del domani, per dirla con Lorenzo il Magnifico, “non v’è certezza”, la speranza è che i cambiamenti, le nuove sfide e il momento di grande passaggio che la comunità italiana sta vivendo al suo interno possano portare nelle nuove generazioni una maturità che sia anche germoglio per una nuova primavera.
Fermo restando che per costruire un futuro ancora foriero di successo bisogna essere sempre realisti. “L’unica ricetta, se ce n’è una, è guardare in faccia la realtà, senza paura”, conclude Ubaldo Larobina.