In ogni scatto in bianco e nero, Attilio Dereani, classe ’23, originario di Trieste, veste sempre lo stesso sorriso: timido, verecondo, riservato. I suoi passi si sono distribuiti nel tempo, dopo che la sua resistenza si è delicatamente forgiata nei primi anni dell’infanzia.
All’età di otto anni, Attilio ha insperatamente perso la sua amatissima madre, sconfitta dalla tubercolosi. Inquieto, col cuore spezzato, ha trascorso i successivi sei anni in un orfanotrofio: suo padre, presenza rigorosa e distaccata, non aveva le risorse per sostenere la sua crescita. A quattordici anni, è però riuscito a rimettere piede nella sua casa d’infanzia, suo padre era passato a nuove nozze: la determinazione del giovane triestino stava cominciando a temprarsi.
“A mio padre piaceva andare in bicicletta, voleva diventare il prossimo Fausto Coppi, icona del ciclismo italiano – ha raccontato suo figlio Marino Dereani –. All’epoca il ciclismo era però uno sport molto costoso, ecco perché ha scelto il calcio, giocando come difensore durante tutta la sua carriera professionale e allo stesso tempo completando i due anni obbligatori della scuola superiore e accedendo al mondo del lavoro come apprendista elettricista”.
I fascisti intanto cominciarono a occupare gli edifici comunali, a imporre disposizioni di coprifuoco e le loro feste comandate; sembrava che fossero esistiti da sempre. La faccia del Duce, i carabinieri che obbligavano ad andare in città ad ascoltare gli annunci. La rabbia cresceva, i giorni correvano veloci e il bisogno di sopravvivere si trasformava in debolezza.
All’età di diciannove anni, Attilio fu costretto ad arruolarsi nelle forze armate italiane. Un sabato pomeriggio, durante un viaggio in treno verso Firenze per eseguire un ordine ufficiale, il giovane soldato pensò di sostare a Spoleto, città che calcisticamente conosceva già molto bene. Attilio prese parte a una partita di calcio, le ore trascorsero rapidamente. Giunto a Firenze, fu severamente rimproverato e dovette subire un lungo processo per insubordinazione. Fu inviato al confine greco-albanese, eppure invece di andare in guerra, fu reclutato per giocare a calcio nella squadra della divisione militare: “Mio padre dovette schivare i giocatori durante le partite, invece di schivare i proiettili nemici!”, ha sorriso il figlio Marino.
Nel settembre del 1943, il governo fascista italiano guidato da Benito Mussolini cominciò a sbriciolarsi; Attilio fu quindi trasferito in Germania e poi nel Sudetenland (Cecoslovacchia) dove visse gli ultimi anni di conflitto come prigioniero di guerra.
Al suo ritorno a casa, trovò Trieste e l’Istria suddivise in due zone (A e B) amministrate militarmente dagli alleati e dagli jugoslavi: la prima comprendeva il litorale giuliano da Monfalcone fino a Muggia più l’enclave di Pola, la seconda il resto dell’Istria. Era il 1945 e gli alleati dissolsero tutte le unità di polizia operanti a Trieste e diedero vita a un nuovo corpo chiamato ‘Venezia Giulia Police Force’ (V.G.P.F.) i cui membri venivano affettuosamente chiamati Cerini. La polizia, guidata dal colonnello inglese Gerald Richardson, gestì la Zona A della Venezia Giulia e, dopo il 1947, l’omonima zona del Territorio Libero di Trieste. Nel 1950 anche Attilio decise di prendere parte al braccio di Finanza del V.G.P.F. in veste d’infermiere, il suo ruolo era legato principalmente al pronto soccorso e alla salvaguardia dei registri.
Attilio Dereani, sua moglie Giorgia e il loro figlio Marino, di tre anni, appena arrivati a Port Melbourne dopo il viaggio sulla nave S.S. Toscana
“Dopo un lungo periodo sotto il dominio militare alleato, Trieste e la regione di Venezia Giulia furono annesse all’Italia nel 1954. Gli italiani cominciarono quindi ad accedere a ogni tipo di infrastruttura lasciando pochissime speranze ai cittadini di Trieste, compreso mio padre – ha raccontato Marino Dereani –. Ormai sposato con un figlio, senza alcun lavoro, il suo futuro incerto gli si presentava ogni mattina davanti agli occhi. Non ci fu altra alternativa che lasciare la sua amata città e avventurarsi verso l’ignoto. S’imbarcò sulla nave S.S. Toscana insieme a mia madre Giorgia. Io avevo tre anni. Arrivammo a Port Melbourne nel dicembre 1955”.
Attilio e la sua famiglia furono inviati al centro di accoglienza e addestramento per migranti, Bonegilla, situato nell’area nord-orientale del Victoria; lo scopo del campo era quello di ospitare i migranti, trovargli un’occupazione professionale e fornire lezioni di inglese.
Le giornate australiane ben presto si normalizzarono, anche se all’inizio fu difficile accettare la nuova realtà. Attilio e sua moglie Giorgia trovarono lavoro all’interno del campo, mentre Marino frequentò la scuola elementare. Fu in quegli anni che il ruolo del triestino divenne decisivo per la serenità dei migranti italiani, ospiti a Bonegilla; cominciò a scrivere regolarmente prima al quotidiano italiano La Fiamma e poi a Il Globo: “Mi sedevo in bicicletta con lui per distribuire i giornali nel campo e ammirare i visi felici degli italiani. È così arduo pensare che milioni di migranti siano sentimentalmente sopravvissuti a una terra strana come l’Australia con un cibo disgustoso, un abbigliamento senza stile, una lingua così diversa”, ha spiegato Marino Dereani.
Attilio Dereani insieme a sua moglie Giorgia durante un evento al campo di Bonegilla
Attilio fu assunto nell’area amministrativa di Bonegilla, gli fu data la responsabilità di assistere il personale medico dell’ospedale e gestire l’ambulanza. La sua prima storia d’amore professionale in Australia durò cinque anni.
Nel 1960, si trasferì a Melbourne; il triestino trovò lavoro in un’azienda che produceva plastica, mentre sua moglie iniziò il suo percorso in un negozio d’abbigliamento femminile. Dopo qualche anno, il sogno di serenità della coppia vide la luce: si erano finalmente stabiliti a Melbourne e avevano acquistato la loro prima casa.
Come moltissimi triestini, anche Attilio non ha mai dimenticato la sua città, così lontana. Negli anni, ha continuato a riunirsi con i connazionali per un bicerin de vin e a ricordare gli anni d’infanzia. Insieme a due compagni, ha fondato il club socio-ricreativo ‘Ex membri della Venezia Giulia Police Force’ noto come V.G.P.F., anche in quest’occasione Attilio assunse il ruolo di ufficio stampa, inviando centinaia di articoli ai quotidiani italiani. Grazie al suo background sportivo, fu coinvolto anche nel Triestina Soccer Club di Melbourne, allenando i juniors e assistendo la squadra in varie attività.
Il comitato del club Ex Membri V.G.P.F. (Venezia Giulia Police Force)
“Mio padre era un uomo di eccezionale volontà, un sopravvissuto che ha rischiato e ce l’ha fatta – ha raccontato Marino –. Aveva integrità, convinzione e diede tutto se stesso per la comunità”.
Uno scatto di diversi anni fa a Melbourne, che ritrae felici Attilio e Giorgia Dereani
Attilio è scomparso lo scorso agosto 2019 all’età di quasi 96 anni. Il suo sorriso modesto, la rabbia dei conflitti mondiali e degli anni di prigionia, la violenza inflitta, la rivalsa sociale, tutto ci accoglie oggi tra gli scatti puntuali della sua esistenza: bisognerebbe saper interrogare il golfo di Trieste, i suoi altopiani rocciosi, le distese aride di Bonegilla per conoscere davvero quello che è stato.