Rientro in Australia e subito al lavoro - con l’avvio del nuovo programma di governo per l’acquisto della prima casa - dopo la missione più lunga da quando Anthony Albanese è alla Lodge.

È anche la più prestigiosa: intervento alle Nazioni Unite; incontro-lampo, che fa da prologo al colloquio finalmente calendarizzato alla Casa Bianca, con Donald Trump; poi Castello di Balmoral, Londra e Liverpool per il triplo impegno che l’ha visto ospite di re Carlo III, fare la tappa di rito a Downing Street per la cena con la sua controparte britannica Keir Starmer, prima di cercare di dargli una mano (dato che il leader inglese sembra essere elettoralmente alle corde) partecipando al convegno dei laburisti GB per raccontare come è riuscito, guidato dalla stessa filosofia progressista, ad annientare i conservatori lo scorso maggio.

Quindi breve sosta, con appuntamenti d’affari, negli Emirati Arabi per ‘incentivare’ possibili investimenti in Australia, con tanto di invito alla catena di supermercati UAE, LuLu Hypermarket, di considerare la possibilità di entrare sul  mercato australiano controllato per oltre due terzi dal duopolio Coles-Woolworths.

Tutte tappe da vetrina, con interventi che non fanno di certo male per immagine e autorità sulla scena locale, anche se, dal punto di vista pratico, in termine di vantaggi per il Paese, non c’è un granché da mostrare. Sicuramente una trasferta che è andata meglio di quella che l’ha preceduta a Vanuatu e Papua Nuova Guinea, dove si è sfiorata la ‘figuraccia’ con annunci altisonanti pre-missione su importanti trattati sulla sicurezza che non si sono materializzati: niente firme, niente accordi, niente certezze che si sia trattato, come è stato spiegato, solo di uno slittamento dei tempi.

Tutto come da copione, invece (a parte l’aula semivuota), al Palazzo di Vetro - dopo l’annuncio che era stato fatto in separata sede sul riconoscimento dello Stato di Palestina - nell’intervento su un’Australia che sta cercando di ritagliarsi un ruolo di primo piano per ciò che riguarda le sue ambizioni ‘climatiche’, di diventare cioè un po’ il Paese-guida della decarbonizzazione planetaria. Un intervento e propositi che non hanno strappato applausi a scena aperta, ma magari hanno fatto guadagnare qualche punticino per ciò che riguarda l’obiettivo di aggiudicarsi la possibilità di ospitare la prossima riunione mondiale dell’Onu sul clima (l’argomento è stato toccato privatamente, ai margini dei lavori, con la Turchia, concorrente nella corsa a due che, in caso di impasse, potrebbe portare alla salomonica decisione di assegnare d’ufficio il compito di ospitare il vertice a Bonn).

A New York è stata sollevata perfino l’idea di un doppio vertice e una doppia presidenza per sbloccare la situazione. Alcune riunioni in Australia, altre in Turchia, ma sembra che l’opzione - per quanto non sia stata esclusa dato l’appoggio che sta ricevendo dai Paesi del Pacifico - non sia particolarmente gradita dalle Nazioni Unite (United Nations Framework Convention on Climate Change - UNFCCC). Il ministro dell’Energia e del Clima, Chris Bowen, già impegnato nei negoziati a New York, incontrerà proprio in questi giorni a Sydney alcuni delegati delle mini-nazioni dell’Indo-Pacifico particolarmente minacciate dal surriscaldamento globale e continuerà l’azione diplomatica per cercare di raggiungere qualche tipo di compromesso prima del summit COP30 a Balem, in Brasile (in novembre) quando sarà ufficialmente annunciata la sede del vertice 2026.

Albanese quindi che può rituffarsi sui problemi ‘interni’, ben sapendo di trovarsi in un’invidiabile posizione politica, con un ampio mandato bis appena ottenuto e la quasi certezza di poter già considerare un’altra conferma nel 2028: un mandato quindi non di tre, ma di almeno sei anni che gli permetterà di guidare il Paese ai ritmi che ha sempre preferito, con un approccio cauto ai cambiamenti, ma una trasformazione costante del Paese perché il primo ministro allo slogan del “nessuno lasciato indietro, nessuno escluso” ci crede davvero, come crede di essere in grado di poter portare avanti, in un clima internazionale sempre più teso e complesso, un necessario equilibrismo diplomatico con due Paesi-chiave per l’Australia come gli Stati Uniti e la Cina.

E, rimanendo fedele al suo stile della prudenza e della coerenza, nonostante le buone notizie diffuse ieri di una conferma, dopo una lunga revisione, del patto AUKUS da parte di Washington, il leader laburista ha dichiarato che il lavoro di verifica dell’accordo (che riguarda anche la Gran Bretagna) non è stato completamente ultimato. Manca ancora, ma potrebbe essere vicinissima, l’investitura presidenziale della partnership militare che comprende la vendita di sommergibili della classe Virginia con un enorme impegno finanziario, ma anche operativo da parte di Canberra, in quanto il patto prevede che, entro il 2027, siano pronte le strutture navali nel Western Australia per ospitare e supportare le visite di sottomarini nucleari americani e inglesi.

Un sì ufficiale di Trump toglierebbe dall’agenda del vertice della Casa Bianca almeno una delle numerose incognite legate all’atteso colloquio del 30 ottobre: un tu per tu sollecitato da mesi (con attacchi continui dell’opposizione) pieno di rischi (data la nota imprevedibilità del presidente Usa), ma anche di possibilità, specie per ciò che riguarda l’impegno USA nell’Indo-Pacifico.

Si parte comunque con il fiato inevitabilmente sospeso, perché ci sono indubbiamente profonde divergenze di partenza tra Albanese e Trump su: spese per la difesa, politica climatica, transizione energetica, Palestina, commercio, valori fondamentali e la strategia verso la Cina.

L’AUKUS e l’incontro alla Casa Bianca sono due passi fondamentali per il pragmatismo progressista di un primo ministro che sa benissimo di non avere altra scelta, nonostante qualche storico borbottio interno di malcontento che fa parte della storia laburista per ciò che concerne i rapporti con gli USA, di collaborare con Trump e avvicinarsi al potere nucleare americano: non si può essere un partito di governo senza essere anche un partito che crede e rispetta l’alleanza. Allo stesso tempo però è necessario continuare ad affrontare, con lo stesso pragmatismo progressista, i problemi paralleli che l’alleanza stessa (e l’AUKUS non aiuta, dato che il progetto è stato concepito come deterrente militare) crea con la Cina.

Albanese sostiene l’espansione dei legami economici con Pechino e ha abbandonato le critiche al regime, riportando le relazioni bilaterali ad un livello più che soddisfacente dopo la lunga crisi dell’era Morrison, ma Xi Jinping sta intensificando i suoi sforzi per perseguire la supremazia regionale, sfruttando la debolezza americana nel Pacifico.

È una Cina diversa da quella con cui trattava Kevin Rudd prima delle tensioni doganali provocate da alcune prese di posizione politiche della Coalizione: più aggressiva, più insistente nei suoi piani strategici per piegare l’Australia ai suoi interessi, come dimostrato dalle difficoltà che Albanese ha incontrato con Vanuatu e PNG, che mettono in evidenza le nuove sfide geopolitiche che ha davanti il Paese.

Nello Studio Ovale quindi, il 20 ottobre, ci sarà un incontro, per forza di cose, un po’ meno rilassato e scontato che nel passato, quando il primo ministro di turno andava sul sicuro a sottolineare l’amicizia, la reciproca fiducia e i valori condivisi fra due nazioni che hanno una lunga storia comune di principi e obiettivi.

Questa volta sicuramente qualche apprensione in più c’è oltre ad una chiara necessità di cercare di rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti, l’impegno regionale di Washington in Asia e Pacifico e una visione multilaterale, più condivisa possibile, del mondo.