Ci risiamo. Come ogni anno con l’avvicinarsi della fatidica data, l’Australia si divide (forse questa volta un po’ di meno, data la stanchezza che cresce per gli eccessi di correttezza politica e la continua ricerca di ‘colpevoli’ di un passato che non si può cambiare) tra coloro che considerano il 26 gennaio una data per celebrare la ‘nascita’ dell’Australia che conosciamo oggi (anche se sarebbe decisamente più appropriato al concetto di ‘nazione’ riferirsi alla nascita della Federazione, il primo gennaio del 1901) e chi alimenta le proteste dei discendenti che, ultimamente si scoprono sempre più numerosi, delle popolazioni indigene che invece commemorano questa data come “Invasion Day” o “Dispossession Day”, giornata dell’occupazione, dell’espropriazione.
Domenica sarà comunque il 237esimo compleanno dell’Australia moderna, partendo da quel 26 gennaio del 1788 che vide nella baia della futura Sydney lo sbarco della “prima flotta” del governatore Arthur Phillip con 736 galeotti, 295 fra marinai, guardie carcerarie e pochissimi liberi coloni, due tori, sette mucche, quattro cavalli, quarantaquattro pecore, trentadue suini, quattro capre e due dozzine di polli (Pegasus Academy Trust). James Cook, anche se alcuni colgono l’occasione della festa di fine gennaio per andare ad imbrattare le sue statue in giro per il Continente, non ha nulla a che fare con l’Australia Day: il famoso ‘capitano’ sbarcò infatti sulla costa orientale il 19 aprile di ben diciotto anni prima.
Nazione comunque giovane l’Australia che, con tutti i suoi difetti e le sue ombre storiche, vale la pena di celebrare senza andare a cercare inutili sensi di colpa. Perché, nonostante le sue ‘imperfezioni, la sciagurata ombra del terrorismo in casa dovuto ad una straordinaria - e sconosciuta fino ad oggi - ondata di antisemitismo che non può più essere ignorata, le sue contraddizioni, le sue incognite, i tanti indubbi problemi irrisolti che riguardano dignità, diritti, opportunità, standard di vita della popolazione indigena, l’Australia rimane per la maggioranza dei suoi quasi 27 milioni di abitanti una terra felice, un paese fortunato. E, guardandosi attorno, tra guerre sospese - agganciate ad un sottilissimo filo di speranza - in Medio Oriente, orrori di cui si parla poco o niente in Africa, la tragedia di un conflitto che mai più si poteva immaginare per la su assurdità e pericolosità alle porte dell’Europa, non si può non essere davvero almeno un po’ felici di poter vivere quaggiù.
E’ giusto quindi riconoscere e celebrare i meriti, le conquiste, i vantaggi, il potenziale di questa nazione che ci permette, anzi ci invita, a non tacere o condonare gli aspetti meno positivi della sua storia e della sua realtà d’oggi. Una nazione che vuole celebrare, ma che a causa delle sue divisioni, contraddizioni e tormenti morali, non riesce a farlo fino in fondo, e soprattutto “tutti insieme”, incapace di guardare avanti invece che indietro e di sventolare le giuste bandiere di una democrazia che funziona, di traguardi raggiungibili anche per ciò che riguarda una propria totale indipendenza anche dal punto di vista costituzionale, quando passerà la delusione del referendum sulla Voce indigena, sano nei proposti, ma pieno di falle sui contenuti e gli obiettivi (ed è inutile continuare a parlare di boicottaggi politici o pregiudizi vari, ben sapendo che la realtà è invece quella del rifiuto di accettare imposizioni e, soprattutto, di blindare nella costituzione un nuovo livello di rappresentanza con troppi punti interrogativi).
L’invito alla protesta lanciato, a Melbourne, lunedì scorso da Esme Bamblett dell’Aboriginal Advancement League
La voglia di celebrare c’è, ma la passione è poca ed incentivata solo politicamente, specie ora che cresce (con molta più passione) anche la protesta e gli inviti al boicottaggio della festa al punto che molti comuni hanno abbandonato l’idea dei festeggiamenti, delle cerimonie di cittadinanza con il benestare di un governo che non aiuta di certo la causa dell’unità e della partecipazione popolare fornendo munizioni all’opposizione per proporre obblighi e regole, in un dibattito che non fa altro che intorbidire i valori, il rispetto e il significato della giornata nazionale.
Divisioni e poco calore che vanno indietro nel tempo dato che fu solo nel 1988 – in occasione del bicentenario dell’Australia – che la ricorrenza venne proclamata formalmente festività pubblica per tutto il Continente. E fu solo nel 1994 che i sei Stati e i due Territori federali accettarono di celebrare la ricorrenza esattamente nella giornata del 26 gennaio (mentre prima la festività, con l’annessa giornata di ferie, veniva spostata al lunedì successivo se il 26 cadeva in un giorno della settimana diverso dal lunedì – quest’anno la giornata festiva non si perde, in quanto slitta a lunedì 27).
La data indubbiamente fa discutere, ma l’Australia non è sola in queste difficoltà di individuare un momento significativo della sua storia per poter celebrare la sua giornata nazionale (la Germania, per esempio, ne ha cambiate tre o quattro prima di arrivare all’attuale 3 ottobre e il famoso 14 luglio della Francia non è stato così automatico e scontato come potrebbe sembrare): pesa nella scelta, ovviamente, la questione aborigena e, forse, la miglior soluzione (perché anche una futura repubblica non risolverebbe il problema di un’Australia del prima e del dopo, quella insomma dei 60 milioni di anni dei primi abitanti del continente e quella dei duecentotrenta-quaranta o più anni della realtà ‘europea’) sarebbe quella di chiedere proprio alla popolazione indigena di pronunciarsi in merito.
Il 27 maggio potrebbe essere un’idea, dato che in quella data, nel 1967, almeno in parte la storia è cambiata: gli australiani hanno votato, infatti, in straordinaria maggioranza (90,77 per cento a favore del ‘sì’) per cambiare la Costituzione, riconoscendo che la popolazione aborigena e gli abitati dello Stretto di Torres fossero ufficialmente ‘contati’ nel censimento e che il Commonwealth potesse promulgare leggi speciali in loro favore aprendo la porta alla politica, sicuramente non trasparente ed efficace come sarebbe auspicabile, di un’autodeterminazione che avrebbe sicuramente bisogno di un nuovo slancio per raggiungere gli obiettivi di giustizia ed equità, che si stanno inseguendo da sempre, per ciò che riguarda il benessere sanitario, economico e sociale.