Il 19 luglio 1992, alle ore 16.58, una Fiat 126 rubata contenente circa 90 chilogrammi di esplosivo telecomandati a distanza (probabilmente da dietro un muretto in fondo alla strada o da un condominio in costruzione nelle vicinanze, venne fatta esplodere in via Mariano D’Amelio al civico 21 a Palermo, sotto il palazzo dove all’epoca abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino (rispettivamente madre e sorella del magistrato), presso le quali il giudice quella domenica si era recato in visita. Lo scenario descritto da personale della locale Squadra Mobile giunto sul posto parlò di decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuavano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodevano da soli, gente che urlava chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati. L’esplosione causò inoltre, collateralmente, danni gravissimi agli edifici ed esercizi commerciali della via, danni che ricaddero sugli abitanti. 

Borsellino uno, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito “il depistaggio più grave della storia repubblicana” e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro. Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla, fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio.

Depistaggio che, dicono i giudici “ci fu”, ma che è rimasto senza colpevoli dopo l’ultimo verdetto, in ordine di tempo, che ha dichiarato prescritte le accuse rivolte a due dei poliziotti, accusati di avere inquinato le indagini sulla strage, e assolto un terzo agente. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano che, specie nei familiari delle vittime, suscita amarezza e delusione. 

Ma andiamo con ordine: il primo processo per la morte di Paolo Borsellino viene celebrato nel 1994. Alla sbarra, come esecutori materiali Vincenzo Scarantino, piccolo contrabbandiere della Guadagna che si era autoaccusato della strage, il boss Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino, proprietario dell’officina in cui venne imbottita di tritolo la 126 usata come autobomba, e Pietro Scotto. In primo grado furono tutti condannati all’ergastolo mentre Scarantino, pentito e accusatore degli altri, a 18 anni. In appello l’ergastolo è stato confermato solo per Profeta, la condanna di Orofino è stata portata a nove anni per favoreggiamento e Scotto è stato assolto. Confermati i 18 anni a Scarantino. Le condanne sono definitive.

Il processo bis, nel quale erano imputati gli uomini della Cupola e i capi mandamento di Cosa nostra, si è concluso il 18 marzo del 2004 con 13 ergastoli. Il carcere a vita è stato confermato per Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto, Francesco Tagliavia. Ergastolo anche per Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana che in primo grado erano stati invece assolti. La sentenza è diventata definitiva, ma il pentimento del capomafia Gaspare Spatuzza, che ha denunciato il depistaggio delle prime indagini connesso alle false accuse di Scarantino, ha determinato la sospensione delle pene per Profeta, Scotto, Vernengo, Gambino, La Mattina, Urso e Murana, ingiustamente accusati. Le loro condanne sono state annullate al termine del giudizio di revisione celebrato a Catania.

Il processo Borsellino ter si è concluso, invece, nel 2006, dopo che la Cassazione aveva parzialmente annullato la sentenza del 2003 della Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta trasferendo il fascicolo a Catania. Inflitte condanne a vita a Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo il “corto” e Salvatore Biondo il “lungo”, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto “Nitto” Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. I due collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè e Stefano Ganci sono stati condannati rispettivamente a 20 e 26 anni di reclusione. Condannati anche tre pentiti: Salvatore Cancemi (18 anni e 10 mesi), Giovanni Brusca (13 anni e 10 mesi), Giovanbattista Ferrante (16 anni e 10 mesi). 

Il Borsellino quater, invece, è diventato definitivo nel 2021 e vedeva alla sbarra due capimafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino condannati all’ergastolo per strage e i tre falsi pentiti Calogero Pulci (che ha avuto 10 anni), Francesco Andriotta (nove anni e sei mesi) e Vincenzo Scarantino, uscito di scena per la prescrizione delle accuse. Erano tutti imputati di calunnia. 

Il processo sul depistaggio, che sarebbe stato ordito attraverso la costruzione a tavolino dei falsi pentiti come Scarantino, è fresco di sentenza: alla sbarra, sempre per calunnia, ma aggravata dall’aver favorito la mafia, sono finiti tre investigatori che facevano parte del pool che indagò sull’eccidio: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Caduta l’aggravante si è prescritta la calunnia per i primi due, mentre Ribaudo è stato assolto.